Pubblicato la prima volta il 24 Agosto 2016 @ 00:00
“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “Al sò adès”
Era un modo di ribattere a chi riferiva motivazioni, notizie, informazioni per lo più prive di fondamento: “lo so adesso”, come dire “se non l’ho sentita fin’ora… “.
Era, quindi, una critica al pressapochismo naturalmente presente anche ai giorni nostri ma allora più diffuso perché, mancando gli attuali mezzi di comunicazione, correva sul filo del “i m’ha dét… ho sintì dì…. il géva tlà butèga…” E, data la minor scolarizzazione, più alto era il numero dei creduloni che non avevano strumenti di verifica ma pure maggiore era la voglia di fantasticare per uscire da una vita dove la realtà, spesso, era dura da gestire. Era anche il commento tra il fastidito e l’ironico verso il saccentone che ti dava sempre consigli su metodi mai sperimentati per guarire da una malattia, per risolvere una pratica burocratica. Dialogo tipo “T’a né sé?” “Us fa isé…”, commento “Al sò adès!” o quello che, contando sull’ignoranza degli altri, si faceva passare per uomo di mondo raccontando di usi e tradizioni di popoli e Paesi lontani, così lontani, ma così lontani…!?
Ma quel modo di dire, proprio perché riferito a chi “ce la raccontava”.. introduce il tema della bugia. Bugie colpevoli come quelle del babbo quando la mamma gli chiedeva “dó t’a l’è mèssa la varghèta?” (dove hai messo la fede che non hai più al dito?). Bugie innocenti come la mia quando la maestra, pur sapendo che con la mia famiglia abitavo in un’unica stanza, mi dava il tema “Le ore liete che trascorro nella mia cameretta” e così mi cimentavo nella descrizione di una camera che avevo visto solo in qualche film americano o “Prima gita con papà, pensieri e parole” quando l’unico tragitto percorso col babbo era stato sul “cannone” della bicicletta dalla scuola verso casa. Colpevoli come quelle dei ragazzi che svolgevano il servizio militare nella locale caserma, terrore della mamme con figlie in età da marito. Passavano ogni pomeriggio in Via Cairoli, diretti al Cinema Italia con ragazze sempre diverse cui raccontavano la storia “sei il primo amore della mia vita… ma se mi vuoi bene me lo devi dimostrare”.
Erano gli stessi che, ritardando sull’orario del rientro, “prendevano” le biciclette posteggiate nei pressi del cinema che poi abbandonavano fuori dalla caserma. Colpevoli come quelle di chi avendo entrate che era bene tenere nascoste, trovavano le “bagge” nei negozi perché, diceva la Elsa “i và in zìr sa dó bascòzi” (fanno le spese potendo contare su due tasche, una ufficiale ed una extra). Per non dire di quelle che ricevevano doni particolarmente ricchi dal padrone della casa dove prestavano servizio ed il commento della nonna: “mè ha so andè a servizie per àn ma im regalèva i straz…”. Innocenti come quelle che si raccontavano ai bambini, ben lontana ogni idea di educazione sessuale, per cui ricordo ancora la voce adirata di mio fratello, rivolto alla mamma “bugiarda, ho guardato bene, non c’è nessun bambino sotto il cavolo!” Sì, perché per poveri non c’era neanche la cicogna… ma cavoli, sempre cavoli!!