“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “Sa fèt ad minèstra, òz?”
Incontrando l’amica sul pianerottolo o affacciata alla finestra…era la prima domanda che si scambiavano le donne di casa…. perchè fosse pasta asciutta, brodo o fagioli… da noi il “primo” era (a casa mia è ancora) sempre “la minestra”, il piatto più importante perché “riempiva”.. “quand tè magnè la minèstra.. dòp gnìnt cus garavèla… ”. Già i verbi “armidiè” o “garavlè” venivano assai prima di “comperare”. Si rimediava un risotto con le foglie dei radicini, una minestra”vedova” con sedano, carota e pomodoro, la “minestra del paradiso” con uova e formaggio grattugiato e mancando le uova, si rimediavano i “tajadlòt” con acqua e farina, si rimediavano le erbe nei campi da tirare con l’aglio in padella e farcire la piada cotta sulla stufa. E non a caso, il più delle volte, la mamma “concordava” con la nonna, che abitava nella stanza accanto..la minestra del giorno. Era un modo efficace per ottimizzare qualche ingrediente, per “nun mandèl da mèl” e, pertanto, dividerlo per la preparazione. Era più facile mangiare gli gnocchi con le patate allora di oggi, dato che non spaventavano certo i tempi della lavorazione, perché la mattinata era in gran parte dedicata alla cucina mentre la patata regnava sovrana, per il suo basso costo. Una delle tre “P” che caratterizzavano la mensa degli anni ’50: Pane, Patate e Pasta.
Patate fritte, arrosto, lessate, con la frittata e, per rafforzare quei rari pezzetti di carne (è stuvadèin), in umido. Alla faccia dell’eccesso di farinacei, per noi bambini era una vera goduria farsi il panino con le patate in umido, schiacciate nel piatto con la forchetta. E quel pane che mangiavamo già per strada tornando a casa dal panificio e dopo si faceva a gara con i fratelli per mangiare “il culo” liscio e croccante del filoncino di pasta molla, quella vera con i buchi nella mollica e la crosta rialzata o per intingere un pezzetto di pane nel sugo cha aveva appena finito di cuocere sul fornello del gas, tra le grida della mamma perché così facendo si “guastava” la tela che si era formata in superficie e che garantiva l’integrità del sugo fino all’ora di pranzo. Un sugo che, ben lontani dallo spauracchio del colesterolo, si arricchiva, oltre l’olio, con il lardo battuto sul tagliere (anzi allora era la “batlèrda”) che, a forza di battere, aveva formato lo scanello nel mezzo e per favorire lo scioglimento di quel concentrato di grasso si usava un coltello, “la curtèla” preriscaldata sul fuoco. C’è stato un momento in cui la pasta asciutta, nella terrina, subiva un primo condimento con burro e “forma”, quindi il completamento con il ragù ed altro formaggio. E tale abbondanza di grassi non era dovuta all’ingordigia ma all’esigenza di dar corpo ad una pietanza sostanziosa che “la duvéva fè chèrna e sangue”… consci del fatto che il secondo a volte c’era, a volte no. Il primo piatto era per il babbo, il capofamiglia e quando non era possibile pranzare insieme, ai bambini ritardatari, in uscita da scuola, si teneva in caldo la terrina su di un tegamino di acqua calda appoggiato sull’orlo della stufa. E la pasta rimasta, come era buona riscaldata nella padella! Sì il sugo si asciugava, spaghetti i maccheroni diventavano secchi ma riuscivano ugualmente a prolungare il gusto già assoporato durante il pranzo.
E quando il primo era brodoso, dunque più leggero, con la scusa che scottava, lo si riempiva di pezzi di pane (sempre lui!), che spingevamo sul fondo del piatto con il cucchiaio per farne stare di più… era, quella, la “stuvèda” un piatto completo che faceva “da prim e da sgònd” e che rendeva sazi fino a sera… quel pane che s’impregnava del sapore dei fagioli formando un tuttuno con i maltagliati o la gramigna mentre il vapore caldo e profumato che saliva dal piatto riscaldava la punta del naso… altra cosa rispetto “l’insalatona” con il granoturco, ribattezzata da mio babbo “e’ pastòun pèr e’ baghin”.