Siamo cresciuti con…

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Pubblicato la prima volta il 13 Ottobre 2018 @ 09:46

Oggi, almeno una tra le diverse scuole di pensiero ci porta a diffidare della pubblicità nella sua funzione di veicolo consumistico:  la crema che fa sparire la cellulite, lo yogurt dalle mille funzioni, i biscotti del mulino, il caffè che ti tira su, la telefonia che ti manda in orbita… ll più delle volte menzognera, mistificatrice o, nel migliore dei casi, sistema di amplificazione di comuni effetti. Addirittura fuorviante tanto da far nascere comitati a tutela dei consumatori che, a volte, sono riusciti a bloccare una pubblicità ingannevole e, quindi, nociva. E’ successo ad esempio con la pubblicità di un olio che inneggiava al pregio del suo dolce sapore quando l’olio di oliva di qualità deve conservare l’amarognolo.

Per non dire del movimento femminista nel senso più vasto del termine che, soprattutto, per l’uso del corpo femminile, per di più accostato impropriamente alla merce in vendita, si è battuto contro l’immagine della “donna oggetto”. Peggio, ci sono stati spot ispirati al femminicidio che hanno suscitato forti reazioni ed anche l’intervento della ministra delle Pari Opportunità. E non sono mancati neppure quelli di stampo razzista.

Negli anni 50 e nei primi 60, la pubblicità a noi bambini piaceva. Siamo cresciuti assieme. E più era lontana dalla realtà, più ci faceva sognare, più ci attirava. Ci apriva uno spiraglio su un mondo lontano ma non impossibile. Perché in quegli anni la dimensione onirica era parte stessa della realtà.

Un mondo tra crudezza ed ingenuità, tra rigore e leggerezza, immortalato magistralmente da Federico Fellini. Lo stesso Fellini che negli anni successivi firmerà la regia di uno spot dissacrando l’atmosfera della pasta “che fa famiglia” con la sofisticatissima lady che al ristorante ordina i rigatoni….

Quando nell’intervallo tra il primo e secondo tempo del film, veniva trasmessa la reclame  della saponetta Lux, “il sapone di nove stelle su 10” la nostra attenzione andava al bagno lucido, piastrellato, a quella bella vasca dove l’attrice di turno era immersa completamente coperta da una schiuma nivea, simile a zucchero filato, mai vista nella vita reale noi che facevamo il bagno nel mastello di legno prima e di zinco poi, strofinati con le schegge del sapone da bucato e la scopetta.

Donne bellissime, attori eroi dei film più ammirati  che ci ammiccavano come fossimo vecchi amici, che indicavano una strada per “essere come loro”.

Non era il prodotto oggetto del nostro desiderio, era la situazione.

Che anzi, nei confronti dei suggerimenti commerciali avevamo sviluppato, grazie al martellamento ostile dei genitori, una sana diffidenza intrisa di anticorpi che, devo dire, ci siamo portati dietro nel tempo.

“L’e’ roba cunfeziuneda cl’at arveina” era l’espressione che bollava la produzione industriale, già per questo di scarsa qualità.

Ricordo una sorta di disprezzo verso una nota carne in scatola, ancora in commercio, alla sua prima apparizione: ui sarà enche i surs, vale a dire balenava il sospetto che in quella poltiglia, camuffata dalla gelatina, ci finisse di tutto, topi compresi! E la voce popolare non si limitava al prodotto ma ci aggiungeva anche un’analisi sociologica. Chi mangiava la scatoletta era “un puret”, un derelitto cui nessuno preparava il mangiare, la donna che usava il dado da brodo a preparazione istantanea era il tipo che “la n’a gnenca voja da fè da magnè”.

Ma il dissenso maggiore era verso gli alimenti dell’infanzia, a partire dagli omogeneizzati, pubblicizzati da una nota e storica marca rappresentata da una specie di Ercole  dal fisico scultoreo a dimostrazione dell’efficacia per la crescita dei bambini. “Una leca cla tira so’ i burdel come pol”… il commento più benevolo.

La maggior parte dei bambini della mia generazione e di quell’ambiente che ho cercato di raccontare, fu svezzata col pancotto, pane raffermo cotto ed ammorbidito nell’acqua condito con poche gocce d’olio e forma (grana) mentre per lenire lo spasimo derivato dai primi denti, ci veniva data, da strusciare contro le gengive, la biossa… la crosta del grana.. la parte che non si poteva più grattugiare.. e che, diversamente, finiva nel minestrone.

Allora  i messaggi pubblicitari anziché stravolgere o stuzzicare la mentalità del momento cercavano di intercettare il sentire comune. La sempre nota casa produttrice di pasta, quella che oggi, dove è lei c’è famiglia, in quegli anni si lanciava sul mercato sottolineando che mangiando quelle tagliatelle “era sempre domenica” proprio perché, allora, come c’erano gli abiti per “tutti i giorni” e quelli “della festa”, la distinzione valeva anche per il cibo. Era la domenica il giorno dedicato alla gallina in brodo, di quelle  rimediate dai contadini o comprate vive, nel mercato all’aperto dell’allora piazza Castelfidardo. Negli altri giorni non erano pochi quelli che ricorrevano alla carne che si comprava nella “bassa macelleria”, vale a dire dai rivenditori che mettevano in commercio carni di animali abbattuti d’urgenza per motivi vari……Esclusi i cappelletti riservati al giorno di natale,  si cuocevano passatini o tagliolini. Nel secondo caso al brodo denso e torbido, con le stelline formatesi in superficie, veniva aggiunto parmigiano con un pizzico di noce moscata e buccia di limone grattugiata per aromatizzare e togliere “che chè ad grass” tipico del brodo di gallina. Quel grasso giallo e solido che oggi fa inorridire e che allora finiva nell’impasto della piada o della ciambella al posto dell’olio.

Iniziava, con la pubblicità “studiata”, quel lavorio che porterà, nonostante le iniziali resistenze, al fenomeno più esteso del consumismo cercando di sostituire la realtà con dei simboli. Una curiosità: uno degli spot sulla “pasta della domenica”, fu girato, per Carosello, da Dario Fo.

E se per la pubblicità del cibo c’era una vera e propria diffidenza, una legittima suspicione, del tutto improponibili alcuni prodotti reclamizzati per la casa, dalla cera di pavimenti, quando i nostri erano fatti di mattoni rossi che venivano ripassati con acqua ed aceto, a quelli per profumare la casa. La Mira Lanza (marchio oggi scomparso) quella di Calimero e dell’Olandesina, leader per molti anni nel campo dei prodotti per l’igiene della casa e della persona, mise in commercio un deodorante per ambienti.

Ma benchè tutta  letteratura avesse sancito che nelle case dei poveri dominasse l’olezzo di cavoli e minestrone, nessuno di noi avrebbe definito “puzza” quel sentore che emanava dalle verza rosolata con i mureldi salsiccia mescolato con quello della piada cotta sulla stufa a legna.

E’ vero, gli odori di fuliggine, di soffritto, ci rimanevano addosso, assorbiti dai capelli, dagli abiti e si avvertivano quando si entrava nell’aula della scuola od in altri luoghi.  C’era anche chi “odorava” di acetilene o petrolio con cui si alimentava il lume in assenza di energia elettrica. Era un marchio che diceva più di una carta d’identità. Ma riscaldarsi, avere cibo per sfamarsi reso gustoso dalla necessità che aguzzava la fantasie delle massaie, erano bisogni primari di un intero o di una parte consistente di un popolo scampato alla guerra. A parte la spesa superflua e già per questo inammissibile, pensare di coprire gli odori che avevano materializzato la speranza, la rinascita era percepito come sacrilegio.

Altra  invece era la considerazione per le marche locali che già col nome garantivano la qualità del prodotto. Penso al Caffè Giovannini, comprato all’angolo tra  via Soardi e Corso D’Augusto, anche solo mezzo etto in grani, in quella mitica bustina col brasiliano in slip, in grani perché macinato a casa, col macinino di legno a manovella, conservava meglio il suo aroma. Era l’alternativa, quasi di lusso, al surrogato della “Vecchina”…

Ed anche il nome di un negozio rinomato diventava una “marca”, sigillo di garanzia. J’affeted dla Tosca, i furmaj ad Bordoni, al scherpi ad Gori, al camisi ad Severi, i vistid ad Capeli o Sarti o Santareli o del mitico Continolo, i lenzol dla Casa de Cured, al stofi dal Quattre Stason, i filati dla botega dla lena… attività commerciali che si svolgevano nel centro storico tra le due piazze principali, Corso D’Augusto, via Garibaldi….

La situazione cambierà con l’arrivo di quel boom di cui ancora si discute se vero o fittizio, che aumenterà la disponibilità economica ed accorcerà i tempi da dedicare ai lavori manuali richiesti dalla casa, aprendo la strada ai prodotti industriali, ai primi elettrodomestici. Nella nostra realtà poi, nel contesto più ampio dell’economia turistica, il lavoro estivo stagionale diverrà il jolly del bilancio famigliare: “ha faz la stason perché ho da tirè so la chesa….. fè studiè i fiol… i s’è mess in testa da cumprè e frigo e la television”…

Già il televisore, una specie di ara domestica che cambierà le abitudini degli italiani e che porterà la pubblicità direttamente nelle case. Un fenomeno quello della TV che meriterà un capitolo a sé.

Fu tanta, da subito, la capacità attrattiva  che a metà degli anni 50, al cinema Sant’Agostino, in via Cairoli, si installava in platea il televisore per consentire la visione della trasmissione “Lascia o raddoppia”, pena la disertazione.  La sala del Sant’Agostino era frequentata dal pubblico economicamente più modesto che avrebbe acquistato gli apparecchi tv di seconda generazione accontentandosi, nel frattempo, di guardarla al bar dove, proprio per “lascia o raddoppia” od il Festiva di Sanremo, ci si trasferiva con l’intera famiglia.

Film di seconda, terza visione, quelli a Sant’Agostino, alcuni divenuti immortali. Penso a “Sette spose per sette fratelli” che passa ancora nelle diverse reti televisive.

E con la Tv arriva  Carosello e le “scenette”  girate da grandi attori di cinema e teatro, Gino Cervi, Vittorio Gassman, Ernesto Calindri, Virna Lisi, Carlo Dapporto, Amedeo Nazzari, Tino Scotti che anticiperanno Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Peppino De Filippo  solo a citarne alcuni mentre spopolano le animazioni, prendono in via la prime campagne di raccolta punti e  gli slogan entrano nel linguaggio corrente: “basta la parola…. con quella  bocca può dire ciò che vuole… lo possiamo torturare?.. sembbbrrra facile… e che c’ho scritto Jo Condor?… e mo’ e mo’?.. chi non beve con me….”

E se la magrezza era dapprima considerata una vergogna, la testimonianza più evidente della miseria, ecco  lo spot dell’olio con “la pancia non c’è più”, che anziché ingrassare assottiglia il giro vita e consente di saltellare agilmente sul letto. Il deodorante prenderà il posto del talco profumato usato per tamponare ascelle ed il solco del seno femminile e la crema depilatoria spazzerà via il mito della sensualità espressa dalla peluria che s’intravedeva nei costumi di spiaggia o sotto le ascelle. Mentre le calze di nylon organzino prenderanno il posto di quelle di seta che le donne infilavano usando i guanti per il timore di smagliarle.

E la pubblicità riuscirà in un’altra impresa, dopo la censura che negli anni 50 colpisce la canzone di Domenico Modugno, “Resta cummè” per il verso “, nun me ‘mporta ‘e chi t’avuto” e vieta la trasmissione in radio di “Tua” cantata da Yula de Palma, passa tranquillamente la saponetta “Camay” che “seduce tre volte”, il liquore Biancosarti che “mette il fuoco nelle vene.. ..le donne appaiano più svestite, le gambe nude si vedono per intero.

Dove sia arrivata la pubblicità, partendo da quel lontano Carosello! È fenomeno noto a tutti, ma a me risuona il commento di mia mamma, ormai 87 enne, che, a tavola, sentendo gli slogan “salutisti” oggi in voga tipo la crema per il prurito intimo, l’acqua che fa fare plin plin, lo yogurt che libera l’intestino, le mutande che trattengono la pipì… se ne usciva regolarmente con la sconfortata considerazione: “che schiv, sempre quand us magna!

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