“J’èndè tuchè e’ cùl ma la zghèla”

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Pubblicato la prima volta il 15 Novembre 2015 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “J’èndè tuchè e’ cùl ma la zghèla”

Sono andati a stuzzicare la zanzara che sicuramente si vendicherà al par suo e, si sa, i pizzichi delle zanzare sono fastidiosi… un po’ come “svegliare il can che dorme” o, peggio, togliergli l’osso dalla bocca: è rischioso.

Si diceva quando con parole o azioni si scatenava la reazione del soggetto comunque colpito. Ho già trattato dei motivi che a quel tempo potevano buttar giù il morale o far venire il “nervoso”: le malattie, la mancanza di lavoro, le liti in famiglia, ma qui siamo in un’altra situazione, ovvero nella provocazione, nell’ironia pungente o, esplicitamente, nella presa in giro.

Più di altre erano prese di mira le zitelle. Oggi la donna non sposata è single, spesso e comunque inserita nella società, una tipa che ama la carriera e che, talvolta, non disdegna distrazione con i toy boy e che decide consapevolente di diventare madre fuori dal matrimonio. Allora era zitella e basta, per motivi diversi, perchè come la “cassandra tót i la vò ma nisùn i la dmända”, ovvero in tanti l’hanno frequentata (cmè la pila dl’aqua sènta), ma poi “s’è pió bèl i la lasa i lè”… o perché era bruttina o con qualche handicap e “la n’aveva incuntrè”. Sulle prime si scatenava maggiormente l’ironia, posto che le donne non sposate erano tutte “signorine” (si sentiva dire, più o meno sommessamente, “eh signorina col buco da signora”), che quando l’interessata se ne accorgeva reagiva con “pènsa ma la tù moj/tù sùrèla/tù fióla che mè slà mi ròba a faz quèl cum pèr…”. Erano le più vivaci di carattere, curate nel vestire, nel trucco, più disinvolte nell’approccio con gli uomini perchè anche invecchiando non perdevano mai la speranza di trovare un “pataca che la tò só”. Le seconde erano le più bersagliate soprattutto dai ragazzi più giovani ed irriverenti: il prototipo era quella segaligna o troppo grassa, con gli occhiali, i denti ingialliti in via naturale, il naso pronunciato, i capelli di indefinito colore, una passatina di rossetto più incolore delle labbra stesse che, per questo, intristiva ancor di più l’espressione; talvolta con qualche difetto fisico. Al suo passare fiorivano i “l’am pèr un rébéss…… la stréga ad Benèvènt…. la trèssa ad tramuntèna…”. Anche qui la reazione non mancava: “sgrazièd….i vòst genitùr in va insgnè l’èducaziòn!”. Era quella che, al massimo, poteva aspirare al matrimonio combinato col vedovo, anche su con l’età, che aveva bisogno di una donna che si prendesse cura di lui, della casa e dei figli, sennò si appoggiava alle famiglie dei parenti, l’ospite sempre aggiunto e mal sopportato a meno che “dotata” di una buona rendita, disponibile a spartirla con i familiari. Una vita solitaria, perché allora una donna sola non entrava nei bar né in una sala cinematografica; acidina, anche per forza, nel carattere, veniva additata come esempio negativo alle più ragazze più giovani “nù fa la séma… sé t’an vò fnì cmè la…”.

Quelle/i della mia generazione di soggetti come quelli sopra descritti ne hanno incontrati più d’uno. Dite che ci sono anche oggi? Meno, molto meno… oggi ci sono molte possibilità di relazioni: corsi serali, scuole di ballo, collegamenti su internet; gli stessi centri sociali per anziani sono luoghi d’incontro e di affiatamento. Lì si formano coppie che non si sposano per “nu pèrd la pensiòn..” o “as vulém bèin ma ugnùn ma chèsa su..“, ma soprattutto è cresciuta la consapevolezza di sé, imparando a star bene con sé stesse.
Del resto “sa tót quèl cus vèd e us sìnt… sa tót i mat cu jè in zìr…”.

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