“L’è l’entrèda dè més…”

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Pubblicato la prima volta il 15 Dicembre 2016 @ 00:00

Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “L’è l’entrèda dè més…”

E’ l’entrata del mese: un modo di dire probabilmente poco noto e diffuso, di stampo esclusivamente femminile.
Allude, infatti, all’arrivo del mestruo femminile ad indicare il malessere e/o il nervosismo che una donna mostrava in anticipo, perché accanto alle superstizioni tipo: la donna mestruata non deve toccare le piante sennò si seccano ed ai pregiudizi; non deve lavarsi o almeno non mettere a bagno i piedi perché “è fa mèl”, ci sono anche aspetti fondati legati al processo ormonale, tra cui la facilità ad irritarsi.

Così, quando una giovane donna si mostrava nervosa senza apparente motivo, il commento, spesso pronunciato tra i denti, era “l’è l’entrèda de més…” Dunque “e’ nervós!” era il vero protagonista. E non era certo un fenomeno di appannaggio solamente femminile.

Perché in quegli anni in cui eravamo più giovani (parlo della mia generazione) – già questo alimentava la speranza verso giorni comunque migliori – c’erano sicuramente motivi per godere di quello che la vita ti passava: il gusto per cibo cui si dedicava tanto tempo della giornata, il piacere della compagnia condiviso nelle veglie, il riconoscimento delle feste come giorni particolari, una solidarietà umana facilitata dall’uguaglianza sostanziale della propria condizione, i giochi dei bambini che ci facevano sfruttare ogni risorsa della fantasia. Ma di motivi per essere nervosi ce n’erano… eccome! Capitava non di rado d’imbattersi in persone “nere”, così si diceva, dal nervoso: quante volte ho sentito la mamma rivolgersi ad altri, chiaramente alterati, con “sé tcè e’ dièvùl fa e’ fog!” (se sei indiavolato fallo vedere anche col fuoco!) e lei stessa “òz ho i signùr”! Non di meno dichiarare la propria rabbia con un “a sarìa un serpènt!”.

Anche se, ho già avuto modo dire”, quello che si temeva di più era il babbo, il capo famiglia, “burdèl òz stè zét ch’è bà l’ha e’ nervós” e quando ce lo diceva con voce sottile la situazione era ancora più pesante “a m’aracmänd chè òz l’ha e’ dièvùl”. Perché, in genere, nelle nostre case si urlava: si urlava di gioia, si urlava di rabbia, si alzava la voce nelle discussioni anche banali, tanto che la mamma (quella che urlava di più) ogni tanto ci richiamava all’ordine “zcurì pió pièn.. ch’è pèr sèmpra ca ragnéma”. Purtroppo è un’abitudine che ho trattenuto.

E allora, come oggi, ci si sfogava col più debole o comunque più vicino “ut tira e’ cul e t’at vèin sfughè sa mè!?” (sei arrabbiato per i fatti tuoi e ti viene a sfogare su di me?) l’avrò sentita dire dalla mamma al babbo, una una volta la settimana. Ed il “nervoso” proveniva da alcune cause principali: i soldi ovvero la loro mancanza, il più delle volte legata ai problemi del lavoro, la gelosia reciproca nelle coppie, la salute, la disoccupazione o la precarietà nel lavoro, come diceva la mamma “l’ha t’invlèina e’ sangue”, “un sa vòja ad gnìnt” (non si ha voglia di niente) né di sorridere ad un gesto affettuoso dei figli, né di ascolare la chiacchiere degli amici più fortunati. In quei giorni, noi bambini, non facevamo domande, andava tutto bene, dalle patate che apparivano a pranzo ed a cena, alla merenda che saltava, il lume che sostituiva la corrente. Allontanavamo anche i compagni come a sacrificarci, per quello che potevamo, così come facevano i nostri genitori. In casa calava il silenzio mentre cresceva l’ansia di scorgere sui quei volti spenti, il guizzo di un sorriso che annunciasse la lieta novella.

Diversa, ma sempre angosciosa per noi bambini, era la rabbia che esplodeva a causa della gelosia a volte basata su qualche indizio a volte no. Un profumo strano “da dunaza!” sulla giacca del babbo (”guèrda c’an so séma mè”), un ritardo della mamma uscita per spese, uno sguardo di troppo di una terza persona, una “lavèda” fuori della norma. A scenate di quel genere ho assistito parecchie volte.
La gelosia che nell’uomo era, troppo spesso, senso di possesso, annebbiava la mente e quegli stessi genitori che ci rimproveravano nel sentirci dire parolacce, durante quegli scontri si dimenticavano della nostra presenza lanciandosi “nomi” di ogni genere e devo dire che le allusioni, i doppi sensi pronunciati e che col tempo ho imparato a tradurre, hanno costituito un corso accelerato, quanto (allora) inconsapevole di educazione sessuale.

Ma su tutto, nel creare tensioni, c’erano le preoccupazioni legate alla salute che in molti casi univano, in altri laceravano. Allora, infatti, non c’era il servizio sanitario nazionale ed i bambini erano fuori dal servizio mutualistico finchè non avessero compiuto cinque anni. E chi li aveva i soldi del pediatra? Dunque il senso di impotenza ed anche di umiliazione che colpiva i genitori quando si ammalava il figlioletto…toglieva “la pèsa in fameja”. Per questo enorme fu la riconoscenza verso un’amica che “esercitava” quando, ammalatosi mio fratello di polmonite, disse alla mamma “cèma e’ dùtór che sa ló a faz péri mè”. In ogni caso “la mutua” scattava, ma era legata all’occupazione e durava sei mesi dalla cessazione: per questo il babbo si adattava a qualsiasi lavoro fino benedire la neve, che aveva come effetto l’assunzione dalle Ferrovie di Stato di numerosi spalatori per la pulizia dei binari. Anzi, il babbo chiedeva il servizio notturno che veniva pagato il doppio!

Poi c’era il nervoso legato all’orgoglio, la ricerca della lite che “sanava” l’onta di un furto subito anche da parte di un presunto ladro, di una “chiacchiera” che metteva in discussione l’abilità, di un giudizio poco lunsighiero che faceva scattare il concetto chiave, vale a dire che oltre i fatti in sé stessi nessuno voleva “pasè da pataca!”.

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