Pubblicato la prima volta il 3 Marzo 2016 @ 00:00
A quanto le vendi le sogliole, oggi? Domanda semplice e rituale ma difficile da sentire oggi, in dialetto, nella nostra pescheria. Sia perché sono sempre meno le donne che mentre fanno spesa, si esprimono in dialetto, sia perché sempre meno sono i pescatori e, quindi, i pescivendoli romagnoli. Peraltro oggi il prezzo deve essere ben visibile sulla merce esposta.
Negli anni ’50 sul prezzo si contrattava, sempre. Alla domanda di cui sopra, se la risposta non era adeguata alle aspettative ovvero alle possibilità di cui si disponeva, la risposta della mamma era “alora ta tlì magn tè!”. La mamma girava tutti i banchi e comprava a pezzi, un po’ in un banco, un po’ in un altro, a seconda del prezzo migliore, metodo che può essere adottato solo da chi sa riconoscere il pesce fresco e non si lascia ingannare dal prezzo…nel senso che, non avendo nessuna competenza, crede che quello che costa di più sia il migliore… in genere sì ma non sempre. La Elsa girava, scrutava, la pescivedola che di una specie aveva pochi esemplari “la j lasèva per mènc…”.. .ed anche “i costa mènc perché jè pió znìn ma jè bòn li stèss…) mentre diffidava di quelle che mettevano in atto il richiamo della sirena “vieni bella mora, guarda che meraviglia di pesce fresco” e la mamma “ma sé l’è còt te giàz..” (riferito a chi lo teneva in fresco coi pezzi di ghiaccio). Quando poi si accostava alla cassetta ricolma, intimava “dì…. tò só què sóta..nà quèl ad ir.. eh?” (prendi quello sotto… perché spesso quello fresco stava sotto coperto da quello del giorno prima) e “nu spènz e’ braz sòra clà blènza” (non spingere col braccio sopra la bilancia che allora era la stadera). Non poche le volte che per stimolare l’acquisto, la pescivendola prendeva il pesce dalla cassetta, lo pesava, incartava nella carta di giornale e poi lo porgeva, non richiesta, all’acquirente individuato: “tà.. a te dag per gnìnt” (ovvero ad uno prezzo così basso che, a suo parere, non poteva essere rifiutato).
Il pesce era il cibo per eccellenza: il babbo, figlio di pescatori e pescatore pure lui in giovinezza, l’avrebbe mangiato tutti i giorni; allora poi non c’era il frigorifero e quindi il pesce si mangiava fresco o niente. Ed era alla portata di tutti. Sogliole e mazzole no, quelle erano care e solo quando la pesca era stata eccezionale, coi prezzi calati, “us putèva fè na bèla magnèda”. Oppure ci si accontentava dei “plus” simili, solo simili alle sogliole. Altrimenti si andava sulla frittura che allora era il misto di paganèl e zanchét, non certo quel pastone con zucchine, rondelle di plastica prese a chili nei bidoni, omninùd di polisterolo. E canocchie e seppia che erano a buon mercato perché di facile deterioramento. Anzi, proprio per questo, quando la Elsa non aveva rimediato altro, andava in pescheria nel tardo pomeriggio perché “s’in te le dà per pòc, dmèn il bóta via” (se non lo vendono a basso prezzo, domani è da buttare). “A vag véda s’armediè dó sgómbre…” che poi servivano a preparare un buon sugo, in parte a pezzi, il resto interi “isè uj è e’ prìm e sgònd” (in questo modo c’è primo e secondo)… anche se “prima bsögna sughèj per fèi fè la su aqua, pó la su mòrta l’è spachèd tè mèz, cundìd sé pèn gratèd, olie, sèl, pevùr, aj, rusmarèin e pó sóra la gradèla…” o al “granzèli” che “se sug l’i fa pió riusìda”… o al “spèdi”….”j’agusèl”… al “bächinchèv”…… i “russól”…. i “sardunzìn da magnè sal spèini.. slà pièda..” o la “saraghina bòna quand l’è la su stasòn”… i “bagég”… “l’acquadèla” “al bòbi” i “mulét”… e’ “vescuv” odiato dalla mamma perché “l’è pìn ad spèini”.. la “raza”.. e’ “cagnèt”…e’ “ròmb”… Frèt, rustìd, marinèd, a lès, a brudèt…
Ed il sugo, cuocendo le teste a parte per usare l’acqua di cottura per insaporire il sugo ed il brodo, speciale coi paganelli. Ecco i paganelli, sosteneva il babbo, andavano bene per il brodo o il fritto; diversamente no, erano “spudapèn”, diceva con un termine dispregiativo riservato a tutti quello che non meritava di essere cucinato. Il babbo che poi ci ha lasciato le sue regole: mai lavare il pesce con l’acqua dolce, ma “tamponarlo” più volte per fargli disperdere la sua “broda”, non stravolgerne il sapore con “odori di terra”… fatta eccezione del rosmarino nella grigliata e del prezzemolo in quello lessato, “ingradlè” a seconda della specie, niente finocchio selvatico nelle lumachine di mare, mettere “su” il brodetto ed il sugo a strati, secondo la pezzatura ed i tempi di cottura, non confondere il brodetto con la zuppa, non mettere la forma sulla pasta asciutta condita col sugo di pesce.
Ma è la mamma che, portandomi con sé durante la spesa, mi ha fatto conoscere la pescheria, a due passi dalla via Cairoli dove abitavo negli anni ’50. Sempre in quei pressi c’era “la pesa”, il mercato di pesatura e smistamento. Noi bambini, stretti nella calca che premeva sempre lungo le corsie, osservavamo il tutto con lo sguardo all’altezza dei magnifi banchi di marmo dove si esponevano le cassette del pesce anche se, data la richiesta, banchetti di legno venivano aggiunti lateralmente. Era un luogo tipico della spesa ma non di meno d’incontro, spallata per spallata ci si imbatteva nell’amica, nel parente e giù chiacchiere.. bisognava urlare per sovrastare le voci di richiamo delle pescivendole… sì la maggior parte erano donne perché gli uomini andavano per mare e le donne vendevano il pescato. Una vita dura per gli uni e per le altre… le donne infatti stavano in piedi tutto il giorno dietro il banco, riparate d’inverno da una mantellina di lana, con lo scaldino ai piedi ovvero un bidone di latta riempito di brace..e con il corpo perennemente intriso dell’odore d pesce… Non diversamente nella piazzetta delle Poveracce dove era d’obbligo passare per vedere se “uj’era al purazi o i garagól o al lumaghini”. Allora era un’alternativa ancora più economica, soprattutto quando il pesce scarseggiava con il conseguente rincaro.
Non a caso, a proposito delle poveracce (le vongole), il detto era “puraz chi li pesca, puraz chi li vènd, puraz chi li magna”.