“E’ fa’ e misc-ér ad Michelaz…”

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Pubblicato la prima volta il 1 Marzo 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “E’ fa’ e misc-ér ad Michelaz, e’ magna, e’ bév e un fa’ un c**”

Fa il mestiere di Michelazzo, che mangia, beve e non fa un… Precisazioni superflue. Dunque una delle tante espressioni che accompagnano i pigroni, i vagabondi, tipo “e’ lavora ti lavór fat”, “vòja da lavurè sèltme m’adós”, “l’è malèd ad vojponite”, “è nato stanco e vive per riposare”.

Un termine del Vocabolario Domestico che mi permette di introdurre il tema dei mestieri e, in particolare di quelli “spariti” o in via d’estinzione (o profondamente cambiati). Non a caso, negli anni ’50, prima del boom del lavoro stagionale, per quelli che non continuavano gli studi che, nel mio ceto di appartenenza, erano la maggior parte, finita la scuola dell’obbligo, c’era la “bottega”: “cus che fa e tù fiól?” risposta “è va a butéga da sartór / da stagnin / da falignèm / da fabre”. Era la “bottega” il luogo d’apprendimento d’un mestiere che poteva e doveva garantire il futuro.
Diversamente da chi andava “da garzòun” in un esercizio commerciale ,svolgendo una serie di mansioni da quella di magazziniere al servizio al banco, alle pulizie del locale: in questo caso solo raramente il mestiere diventava definitivo. E non mancava che “un’ha truvè gnìnt, uj täca andè si muradór”. A bottega con la tuta blu, quasi sempre troppo larga perché “passata” dal babbo o da qualche altro parente, il garzone con grembiule grigio, il muratore – anzi il manovale – con i “vistìd da lavór”, ovvero i peggiori, i più vecchi, pezze ai pantaloni e maglie ricavate con scarti di lana di diversi colori.
La paga settimanale o mensile veniva consegnata al capo famiglia o alla mamma a seconda che comandasse “la Frènza” o il capofamiglia. Al ragazzo, solo in un secondo tempo, si lasciava “lo spillatico”. In ogni caso allora i mestieri erano sicuramente più diffusi delle professioni: dutór, avuchèd, diretùr ad bènca, che erano l’èlite, non tanto o non solo per i guadagni legati al loro lavoro, ma perché tutti appartenenti a famiglie ricche, possidenti, le uniche che potevano permettersi di mantenere i figli all’università e poi avviarli nell’attività; raramente uno del ”popolo” arrivava a quei livelli, salvo essere un genio e poter contare su borse di studio. Capitava invece, ogni tanto, quello che veniva definito “un cólp ad furtuna” quando la ragazza molto bella ma povera sposava il rampollo di famiglia.

Dunque, i mestieri scomparsi. Chi ha la mia età avrà sicuramente sentito dire de “e’ lùstròt”. Lì si portava la “mobilia” a restaurare per sottoporla ad una lucidatura che così “l’artórna come nòva”. Quando i pezzi della camera da letto, oramai opachi e scheggiati “i né putéva pió” (da notare l’espressione che attribuiva a “cose” sensazioni umane), si svuotavano armadio e comò riempendo qualche scatolone e si lasciavano a terra le reti appoggiate su mattoni; una visione non poco desolante ma, non potendo comprare “la camera” nuova, non c’era altra soluzione.
Frequentavamo spesso anche il calzolaio. Le scarpe, soprattutto quelle “buone”, dovevano durare in eterno, prima di tutto usando ogni cautela possibile, indossandole solo se necessario, possibilmente non con la pioggia, pulirle regolarmente con spazzolino e lucido, quello contenuto nella scatolina di metallo tonda, metterle alla finestra a prendere aria e riempendole con la carta per mantenere la forma. Guai ad infilarle senza slacciarle: “chè t’hai bót zó è fórt !”. Se di colore chiaro, potevano essere tinte e prendere nuova vita, se valeva la pena si facevano addirittura risuolare “chè e’ sóra l’è èncora nòv..!”. E tacchi, quelli andavano “fatti” sempre e subito perché se no “l’i s’arvèina..”.

E la bicicletta? Prima di acquistarne una nuova quella vecchia si portava dal meccanico “dal biciclèti”, non prima di aver tentato una riparazione casalinga. Non disponendo di un cortile, il babbo, dopo la foratura, metteva la pezza alla camera d’aria (in dialetto cameradèria suonava come fosse un’unica parola) seduto sul pavimento di casa, di fronte la bicicletta ribaltata, di fianco il catino con l’acqua dove immergere la gomma bucata per trovare il buco, dall’altro canto forbici, mastice, una vecchia camera d’aria da cui ricavare la pezza. I moccoli incendiavano l’aria quando, messa la pezza, rimontata la ruota, gonfiata la camera d’aria, dopo pochi secondi, questa, tornava ad afflosciarsi: evidentemente c’era un altro buco e si doveva ricominciare da capo.
Si andava dal meccanico quando la bicicletta era “sc-entrèda” e per accomodare i freni, ma non subito perché l’importante era avere funzionante quello che fermava la ruota davanti; così, se si rompeva l’altro, il filo veniva arrotolato attorno al manubrio. Non poche le cadute quando frenando bruscamente si inchiodava la ruota davanti! Per la sella no, non si andava dal meccanico, quando era arrivata alla consumazione totale, il babbo la sostituiva magari togliendola da un’altra bicicletta… del resto non erano rari i casi in cui il biciclo veniva letteralmente costruito assemblando pezzi provenienti da altri “scaccher” rinvenuti dalla mitica Minghina o da Biscarèin.

Anche “l’arlùzèr” era poco frequentato. Il babbo era l’unico ad avere l’orologio. Per noi bambini era ancora lontano il momento in cui l’orologio costituirà uno dei regali tipici della prima comunione. In quegli anni ’50 arrivava la scatola coi fazzoletti da naso, la biancheria, la cornicina perlacea.
Pressochè inutile l’intervento dell’idraulico, dato che, a casa nostra, esisteva un solo lavandino mentre il cesso era a metà scala comune. Quando il rubinetto, quello di ottone con la chiavetta, si “spallava”, il babbo cambiava la guarnizione ricavandola da un vecchio copertone. Se “la s’intapèva” la turca – anche a causa della carta di giornale che veniva usata al posto di quella igienica e per chissà cos’altro venisse gettato – la si lasciava così.
Stessa cosa per l’elettricista dal momento che, di elettrico, avevamo solo la lampadina a 125 di voltaggio, penzoloni nel mezzo del soffitto, di quelle inserite nel paraluce, tondo, di latta e non erano poche le volte che per risparmiare l’energia si usava il lume a petrolio, già puzzolente o ad acetilene veramente impestato. Idem l’imbianchino, perché nell’unica stanza dove abitavamo ai muri bianchi in origine ed anneriti dalla fuliggine della stufa, il babbo, ad ogni primavera, dava una mano di calce (la calzèina). Ma anche negli anni ’60, passati nell’appartamento a più stanze di edilizia popolare, sarà sempre il babbo ad imbiancare con pennellessa ed il “colore” ottenuto con un bidone d’acqua ed la boccetta di ducotone.

Insomma dopo il verbo “armidiè” seguiva, a ruota, il verbo “arangès”.

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