Pubblicato la prima volta il 13 Gennaio 2016 @ 00:00
In quegli anni le stagioni erano segnate dagli odori., anche in città. Non c’era smog, poche le auto in circolazione. In primavera gli odori si aspiravano in diretta, nelle strade. Da quello di soffritto che si spandeva dalle finestre aperte a quello del mastice del falegname che lavorava sull’uscio della bottega. I bar sapevano di caffè tostato e tamarindo. Già molto si è detto sui “forni” (oggi panifici) che venivano facilmente individuati dalla scia lasciata dalla cottura del pane e della ciambella. In via Cairoli arrivava l’odore inconfondibile del pesce della vecchia pescheria e della vicina “pesa”. E nei giardini (villa Giulianelli), negli spazi verdi attorno la Chiesa di Sant’Agostino e nell’Arena del Cinema Italia, c’erano rose, glicini, belle di notte…. ovvero segnali inequivocabili della primavera. Ma c’era un altro indicatore: l’abito.
La primavera, soprattutto per le donne, accentuava la sensualità liberando i corpi perlopiù carnosi (era il tempo delle maggiorate fisiche) infagottati d’inverno, nei cappotti con le maniche alla raglan o a kimono. Il cappotto andava smesso prima possibile anche perché era il capo più costoso, quello che doveva durare più a lungo. Veniva confezionato con stoffe di pregio (loden, cammello, doppio panno). Anche i bottoni (pochi e grandi) impreziosivano. Per trovare i migliori si era disposte a lunghe file da Benvenuti, la merceria più fornita di Rimini, nella piazzetta della Poveracce. Dovendo risparmiare si optava per i bottoni ricoperti con i ritagli della stoffa, nel botteghino in fondo la via Giordano Bruno dove si rammendavano anche le calze di nailon “smagliate”. E la fisicità era contrassegnata anche dagli odori della pelle. Non si usavano deodoranti e i capelli sapevano dell’aceto usato nel risciacquo per aumentarne la lucentezza. Il sudore veniva asciugato col talco. Le gonne (al sutèni strèti) ) e gli abiti fasciavano i corpi alleggeriti da generose scollature quadrate che delimitavano la pelle abbronzata dal sole. Non a caso ci sarà poi la reazione delle gonne ampliate dai “sottogonna” dove il gonfiore veniva accentuato dalle cinture alte e strettissime in vita mentre faranno la loro comparsi gli abiti “a sacco” segnati al seno (gli spalloni). La lunghezza lasciava liberi i polpacci che, d’inverno, erano coperti dalle calze con la “riga” verticale. Il seno era evidenziato dalle cuciture laterali, le pinces (al pènz), oggi scomparse dai modelli femminili. E s’usava un’espressione sicuramente ben presente nel mondo felliniano: “A scap in bèla vita” ovvero “esco, all’aperto, senza giacche, soprabiti”. Al massimo una “rebecca” (maglia allacciata con bottoni simile ad un cardigan ma di dimensioni più ridotte). Alternativa alla gonna stretta era quella a “libro” dove un lembo sormontava l’altro con il gioco del “vedo e non vedo” della coscia. Il colore dei bottoni era di un ricercato contrasto con quello della gonna. Chi poteva contare sul “vitino” usava la sottana “ a ruota” o alle godè. Vestito di cordonnet nero per la sera. Al cappotto seguiva “ el spulvrèin”, lo spolverino oggi più noto come soprabito, spesso con la martingala (cinturina di stoffa posta a tergo) o la rendigote a tre quarti. Epocali anche i generi delle stoffe: fustagno, jersey, panno lenci, bouclé, raso, taffettà e, ancor di più i colori: carta da zucchero (azzurro), pastèl (marroncino chiaro) crème (giallino), bló aviazión, grigio fumo di londra. E le donne si vestivano ed atteggiavano secondo il “tipo”. Scarpe basse (alla cenerentola) e cappelli corti, lisci (alla maschietta), tipo Shirley MacLaine. Tacchi a spillo, capelli corti ondulati o a media lunghezza, arrotolati in sotto, la fatalona modello Ivonne Sanson.
“L’ha n’è bèla ma l’è un tip”, non è bella ma è un tipo”, era, allora, un’espressione ricorrente. Eravamo lontani dai modelli stereotipati introdotti dalla TV. Il contatto diretto alimentato solamente dalle pellicole cinematografiche determinavo gusti e valori, anche fisici. I dettagli prevalevano sull’insieme: il taglio degli occhi, il colore naturale dei capelli, due belle gambe. Il “trucco” era considerato infido. “Bsägna védla la matèina apèina svégia”. Cipria e rossetto i due cosmetici più diffusi. Già lo smalto alle unghie, soprattutto di rosso intenso, era un campanello d’allarme sulla “serietà” dei comportamenti. Ma quello dei comportamenti da parte delle donne (fumare, entrare nei bar considerati rigorosamente luoghi “maschili” , dare “confidenza” agli uomini, usare “parolacce” in pubblico, ecc..) è un altro capitolo…