“U’ la fà tända”

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Pubblicato la prima volta il 25 Ottobre 2015 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “U’ la fà tända”

Oggi si dice a 360 gradi, ovvero si chiude il cerchio senza interruzioni: di solito era riferito al tempo quando pioggia o neve scendevano e diceva la mamma “i n’ha nisùna voja da smèt”.

Ho già ricordato l’ansia di cui anche la pioggia era carica quando non avevamo né stivaletti, né ombrellini o mantelle, per cui i piedi erano sempre a mollo; ancor peggio con la neve, anche se il babbo veniva ingaggiato per pulire i binari della stazione, il che assicurava un’entrata straordinaria e, per sei mesi, l’assistenza mutualistica che, allora, non era ancora garantita.

Ma la giornata di pioggia richiama alla memoria quelle che si dovevano trascorrere “ciùs ad chèsa”, con la mamma che brontolava perché “an so coma fè a sughè i pan”: i “piccoli” si stendevano nella raggiera della stufa ma gli altri….e poi, quando alla pioggia si univa il vento, l’umidità saturava la stanza anche perché, dato lo stato degli infissi, “la pasa di vedrè”.
Era gnara anche per noi bambini in un tempo in cui non c’era la TV e la Radio non trasmetteva certo programmi per i più piccoli e poi, in quelle giornate, anche il babbo rimaneva in casa e la radio non si poteva accendere perché fonte di consumo del tutto inutile, secondo lui; faceva eccezione solamente per il “bollettino dei naviganti”, che ascoltava tutte le mattine sedendosi davanti l’apparecchio. Per la stessa ragione era un problema anche accendere la luce dell’unica lampadina che illuminava la stanza: “l’è prèst, l’è prèst!!!” e poter quindi leggere qualche giornaletto, di quelli sdruciti e oramai senza copertina, avuti in prestito da qualcuno che li aveva avuti da un altro, che li aveva… Perché “u’ la fa tända” non era riferito solo al tempo ma anche, almeno da parte della Elsa, all’umore del babbo che, quando non lavorava, sembrava alla ricerca di ogni pretesto per avviare una discussione. “E’ zérca tót i pìl pòsta da ragnè” sbuffava la mamma e lo si capiva dall’accanimento con cui ripeteva il solitario con le carte, da come sbatteva le carte sul tavolo (“un vèin!”) e già ci preoccupava il motivo, ovviamente celato, per cui lo faceva.

Allora la mamma mi faceva cenni con gli occhi e con il volto per dirmi “zóga a chèrti” cioè “tienilo impegnato”, ché le carte erano uno dei pochi “divertimenti” praticati dal babbo. Per me non era il massimo perché, ancorchè bimbetta, mi era facile vincere dato che, quando si gioca in due, vince chi ha più memoria e dimestichezza coi conti. E questo faceva arrabbiare Tiglio in una situazione del tutto simile a quella descritta nel film “L’oro di Napoli”, dove De Sica gioca a carte, perdendo, col figlio del portiere.
Così, al massimo, potevo vincere la prima partita e subire lo sfottò del babbo “la prima l’è di pió znìn” e comunque attribuiva, come De Sica, la mia vincita alla “fortuna” tanto che mi canticchiava pure una filastrocca: “Fortunella va al mercato con la cesta sulla testa..” e non ho mai saputo se fosse di sua invenzione o no.

Dopo la prima, facevo in modo di perdere mentre il babbo rideva di gusto, in attesa che la mamma ponesse fine al sacrificio con il “adès basta, clè ora da magnè”.

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