“L’è su dé”

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Pubblicato la prima volta il 6 Novembre 2018 @ 08:47

“E’ il giorno dedicato a loro”

Negli anni ’50 il concetto di “ponte” festivo, tanto più d’inverno, non era diffuso; poca considerazione per Ognissanti, grande devozione per il 2 novembre, allora festa nazionale, come il 4 novembre, a differenza di oggi che la festività è attribuita solo al 1° novembre., il che faceva ancora stupire la mamma, giacché, diceva: “l’è piò festa e’ dò perché i mòrt aj avém tót.. i sènt sna quej ch’j créd…”.

Dunque “per i mort” stava ad indicare non solo un giorno ma l’inizio di una nuova stagione, quella invernale, tanto che proprio il 2 novembre, celebrazione e ricordo dei defunti, era spesso occasione per rinnovare il cappotto per la visita al cimitero, “farsi la permanente” (chi poteva) da parte delle donne, quella gretta, ricciolina che durava più a lungo, così “a nadèl a so a pòst” e dare inizio all’accensione della stufa a legna. Era a quel punto sancita la fine dell’autunno, ovvero di quella coda estiva che manteneva caldi i colori e dolce l’aria nel mese di ottobre, per entrare nella novembrina calotta grigia e nebbiosa che avvolgeva l’atmosfera, carica dell’odore della fuliggine sparsa dai camini mentre l’umidità “la t’entreva ta gli òsi” e risvegliando tutti i dolori che, necessariamente, d’estate, bisognava ignorare presi dal lavoro stagionale.

La visita al cimitero, proprio il due novembre, era d’obbligo: “l’è su dé” diceva la mamma, perchè sennò “i mort i sna per mèl”. Si aveva la strana percezione che i propri cari scomparsi avrebbero “sofferto” se in quel giorno, in cui la maggior parte riceveva visita, fossero stati esclusi; come se fossero stati in vita, in una sorta di collegio o di ospedale e in attesa del giorno di ricevimento.

La confusione tipica di quella giornata, quindi, non solo non veniva evitata ma era la meta stessa del lungo camminamento che da casa portava al Camposanto. A me sembrava un viaggio tanto era lunga la strada da via Cairoli al Corso D’Augusto poi il Ponte di Tiberio, il Borgo San Giuliano per arrivare al lungo tratto che portava alle Celle e, quindi, all’entrata principale del Cimitero che veniva preannunciata dalla vista dei cipressi, altissimi. La fatica, la stanchezza ai piedi, le vesciche dovute a scarpe di stretta misura, veniva mitigata dalla possibilità, allora assai rara, di poter “sfogare l’occhio” e osservare gli altri gruppi familiari che andavano nella stessa direzione, contraccambiare il sorriso degli altri bambini che ci osservavano a loro volta, fare le boccacce a quelli che ci guardavano senza sorridere, con aria di sufficienza, i maschi, quelli col berretto con tanto di visiera ed i pantaloni al ginocchio detti alla “piccolo lord” mentre i “nostri” avevano la papalina fatta coi ferri ed i calzoni corti, le femmine col cappellino e la mantella impermeabile, noi col cappottino “passatoci” dai fratelli o regalato da chi poteva permettersi di “scartarlo”.

Comune a tutti i maschi era dar di calcio ad un sasso con la presunzione di portarlo fino al traguardo finale: cosa non facile perché bisognava imprimere la forza sufficiente per spostarlo in avanti ma non troppo, ad evitare che finisse in mezzo alla strada e la difficoltà maggiore era quella di scansare gli scapaccioni (i “tuzùn”) del babbo preoccupato per la sorte delle scarpe, bianche e blu, “da tennis” quelle “buone”, le “Superga” che si portavano fino alle stremo. Scarpe che, come tutte le altre, si sarebbero infangate, girando per i diversi settori di terra. Perché la pioggia, in quel giorno, era quasi una tradizione che accentuava il grigiore del luogo per nulla scalfito dai fiori, per lo più crisantemi bianchi.

Sì, quella era una delle rare occasioni in cui il babbo usciva con tutta la famiglia. Serviva infatti “la forza di un uomo” per spostare la pesante scala di ferro che consentiva di arrivare agli ossari posti più in alto..poi bisognava pulire le lapidi annerite dal fumo dei lumini, non solo quelle dei propri cari ma anche quelle che apparivano abbandonate, gettare i fiori secchi, sostituire i mozziconi di cera, estirpare le erbacce a terra, sistemare la “gerolina”.

Ma la giornata si consumava nell’incontro con amici e parenti lontani che, mancando telefono ed automobili, sparivano persino dalle immagini conservate nella mente. Si scambiavano le informazioni “cum stèt?” “la tu fiòla la s’è spusèda?” “tcè dventa nona?”; ma per lo più, condizionati dal luogo, le conversazioni vertevano sulla salute o sulla scomparsa di comuni conoscenti: “Eh enca Luis l’ha un mèl brót, i l’ha vèrt e i l’ha cius” “La Rosina? L’avù un prèl, l’an capes piò gnint”.
E non mancavano di certo i pettegolezzi. “Ah quella la pianz, la fa le vedova inconsolabile, ma l’amig l’era drè me’ funerel de su marid…”… “e quil? I pianz e’ mort per frighè i viv…”.

E nel lungo trasferimento da una tomba all’altra, perché il cimitero veniva girato in lungo ed in largo, si commentavano le foto, tutte in bianco e nero, dei defunti. “Tè vèst quella… an l’an gnera..” mentre noi bambini eravamo attratti dalle foto dei bambini, i più piccoli, ripresi con gli occhi chiusi ed il volto senza sorriso, con il pallore mortale reso dal giallo di quelle foto sbiadite. Allora anche le foto erano rare, riservate solo ai momenti solenni e, quando capitava la disgrazia in età prematura, foto non ce n’erano.
Per noi bambini, più che la commozione, scattava la curiosità nel vedere le cellette, le “casine” monumentali o le tombe recintate col cancelletto, si cercava con lo sguardo quella più originale, la più lussuosa… e pur senza chiedere o ricevere spiegazioni, anche lì apparivano chiare le “differenze”.

Il malessere, quasi un inconsapevole senso di colpa, invece, ci prendeva nel vedere i bambini della nostra età, gli orfani ospitati del collegio della Stimatine che piantonavano l’entrata dove le suore vendevano lumini ed raccoglievano offerte. Se ne stavano ritti ed immobili in un innaturale silenzio, col capottino striminzito di uno spento colore marrone, le gambe nude e violacee dal freddo, quale fosse il clima.. perché, dice mamma Elsa, “tè campsent l’è sempra frèd…” alludendo ad un freddo che si sente “dentro” e dal quale non ci si può difendere.

Ma non bisogna dimenticare che il 2 novembre era comunque un giorno di festa, dove sacro e profano si mescolavano come spesso accade nelle tradizioni popolari. Così fuori dal cimitero, agli ingressi, si vendevano le caldarroste e c’era il banchetto dei dolciumi. Sarà mica un caso che a Rimini s’è inventato persino un dolce “la piada dei morti” ed anche la “fave”, quelle con i colori tenui e pallidi, dal sapore delicato: ne esistono ancora ma niente hanno a che fare con quelle originali… del resto oggi siamo al “dolcetto o scherzetto”!

Boh!

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