Pubblicato la prima volta il 8 Novembre 2018 @ 08:47
Il marinaio vuole ornare la sua barca, come il contadino il suo carro, come il pastore il suo vincastro. Perchè, durante la fatica, gli occhi cadano sovra segni di poesia e di festosità. O non c’eran forse dei fanti che avevano inciso, nelle pause del fuoco, l’alpenstok e il calcio del fucile? Accoccolati in fondo alla trincea rivedevano le pecore brade alla pastura. E seguire la linea nel solco scavato nel duro legno era un raccoglimento, e l’anima del fante pastore era sulla punta del coltello, non diversamente che quella di un poeta sulla penna.
Il marinaio non ha permesso che l’opera del calafato giungesse a completargli il trabaccolo nel cantiere, ma ha preteso il suo campicello da coltivare, il suo quadratino di terra da solcare. Ed ha scelto l’arco a retro della prua e l’arco a retro della poppa per incidere le « zoie ». S’è messo a carponi sulla tolda e ha fermato nel legno il suo canto. Aveva cosparso di ocra le vele, aveva segnato tre grandi dischi sul fondo giallastro o tracciato una gran croce di malta chiusa in un cerchio, come una ruota. E issato sull’albero maestro il piccolo telaio a segnavento e sul trinchetto il gallo dalla coda-bandiera.
Ora scolpiva. Era un tralcio di rose che correva sinuoso ed a ogni curva lanciava una foglia appuntita od un fiore; era una grossa fune che, svolgendosi a serpe, legava nel suo camino o una croce di malta o una stella; erano due delfini che ammusavano e arricciavano le code, erano catene di roselline o di stelle. E la varietà più che nel soggetto decorativo prescelto è nello stile. I tralci di rose più o men sottili, più o men sinuosi, le funi più nervose o più ridondanti, le croci e le stelle più scarne o più opulente, e più tozzi o più slanciati i delfini con occhi socchiusi ed umani, con bocche semiaperte, con nari dilatate. E il segno più o men deciso, per imperizia o per studio. Ci sono certe croci e certe stelle che paion rivestite di neve, ci sono certi fregi aristocratici che si direbbero ricalcati su modelli classici. Zoia; la gioia, la gemma del trabaccolo.
La zoia di prua è generalmente più curata. La prua ricolma dei barchetti romagnoli non ha come le chioggiotte, dalla linea rigida, quasi geometrica, la gaiezza dei due angeli che dan nelle tube e che gridano solcando il mare « viva la pace! ». Due grossi occhi sono sotto la testa di prua, rotonda ed incisa come una chioma ricciuta, e il color bruno si confonde col catrame della chiglia. La zoia di poppa, sotto la barra del timone, più semplice, di solito. Un rettangolino col millesimo di nascita e due fregi molto sobri ai dui estremi tanto per prendere tutto il campo. Ma l’anno di costruzione è, alle volte, inciso a prua tra bocca e bocca dei delfini, tra un tralcio e l’altro di rose. E, sempre a prua nel triangolo che sovrasta la zoia, il pittore si sostituisce all’incisore. Sempre la stessa mano, sempre la stessa anima. Un vasetto da fiori con un cono d’infiorescenza molto appuntito. Le roselline dei barrocci e dei plaustri son corse via dai campi e si son messe a navigare.
E, sopra ancora, c’è sempre un chiodino da appendervi un ferro da cavallo, come scongiuro contro le insidie che trama il mare.
Ed eccolo ora questo romagnolo da fatica, nato più contadino che marinaio, « che non rede neanche nel pane », che si ride del rosario legato a devozione sull’albero maestro del bragozzo chioggiotto, quando lo incontra al largo; questo irrequieto, che ha un cuore da regalare a tutte le ribellioni; eccolo che è lui quando non si sorveglia, quando la sua anima di fanciullo buono e un po’ malinconico esce dalla rude scorza nativa a balbettare parole di poesia. E al piccolo fuoco delle pipe, che si ravviva ad ogni boccata , c’è sotto la barra del timone un canto fermo che trasvola sui fiori della zoia, che passa, come questo grande uccello randagio che batte le vele come ali, sotto la stella incatenata a perno del firmamento.
E ruba gli occhi la zoia di prua quando il foriano sospinge agli approdi, al tramonto, e il sacco delle reti che han fatto sì vasto bottino tramanda odore di « asprìa » (1), di prati marini misteriosi di flora e di fauna, e risente per il bagno di « zapein » (2) il buon respiro della pineta.
(1) asprìa: chiamano i pescatori di Cesenatico i prati del mare.
(2) zapein: è un bagno resinoso ottenuto dalla corteccia del pino frantumata e polverizzata.
Aldo Spallicci, in La piê, 31 luglio 1924.