Pubblicato la prima volta il 27 Marzo 2016 @ 00:00
Quando si diceva “pèr stal fèsti” ci si riferiva sempre alle feste di Natale: Pasqua era semplicemente “per Pasqua”. Perché, se per i credenti praticanti la Resurrezione aveva un significato più intenso della Natività, nel vissuto popolare era percepita come una festa dove al raccoglimento, alle atmosfere alimentate da canti e suoni propri del Natale – peraltro favorite dal tepore riprodotto nelle case – si sostituiva quel senso del “risveglio” legato all’annuncio della primavera. Non a caso valeva il detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”.
Caldo o freddo che facesse, oramai l’inverno era fuori, la Pasqua era già l’anteprima dell’estate, la data che segnava il cambio degli indumenti e le prime uscite in “bèla vita” mentre, chi poteva, rinnovava l’abito nuovo o le scarpe. Era il momento delle grandi “pulizie di casa”, sollecitate da “è vèin e’ prét a benedì”… sì perché si aveva chiara la percezione che “gli altri” confondessero troppo facilmente la miseria della casa, degli arredi spaiati, della promiscuità tra letti e cucina, degli odori di soffritto, con un senso di sporcizia del tutto immotivato. Ricordo bene le raccomandazioni della mamma quando ci si avvicinava ai cibi in preparazione “lèvte al mèni che mè a só schiva” o “nu tuchèv i cavèl ch’in vaga fnì tè magnè” e “nu stè sóra i tighèm slà gòzla me nès…”.
Più concretamente si approfittava dell’arrivo del sole: finalmente si poteva spegnere la stufa, quella che “l’ha bóta zó” (fa fumo) e, quindi, anneriva muri e tendine, si potevano spalancare le finestre, pulire l’angolo dove si accatastava la legna, imbiancare i muri. Ecco, “dè è biènc” era un’operazione che impegnava tutta la famiglia: i pochi mobili venivano ammucchiati nel centro dell’unica stanza, coperti con un telo; il babbo dava il bianco alle pareti (gli è néri i vò pió d’una mèna), noi bambini mescolavamo (dai dèntra!) con un bastone la “calzèina” nel bidone di latta, la mamma puliva le macchie a terra prima che si seccassero dopo aver pulito il pavimento coperto dalla fuliggine uscita dai tubi, perché, finito l’inverno, era d’obbligo pulire la stufa e tirè zò i tub.
Era anche il momento giusto per “rifare” i materassi: il crine che li imbottiva, infatti, era talmente pressato da renderli duri come asse di legno. La materassaia veniva a domicilio: prima bisognava “scarmiè è crèin”; poi, su due cavalletti, veniva stesa una porta (sì di quelle che chiudevano l’uscio) e lì avveniva la preparazione. L’intima, lavata, veniva riempita e poi l’abile materassaia cuciva bordi e trapuntava, di spago, il materasso con il lungo ago, fermando i punti con piccoli ciuffi di cotone (e’ bumbès). Solo in un secondo momento il crine fu sostituito dalla lana ricavata dalle maglie “inasèdi”.
Dunque la Pasqua aveva l’odore della calce fresca, l’acre del crine e quello soave della ciambella, fatta in casa o, meglio, nel forno più vicino. Allora, infatti, prima che norme igieniche lo vietassero, i forni, nei giorni precedenti la Pasqua, aprivano nelle ore pomeridiane alle donne che arrivavano con la sporta piena di “cartocci”: farina, zucchero, olio o strutto, latte, uova, il che faceva spesso adombrare il titolare dell’esercizio che avrebbe sperato di vendere gli ingredienti. Invece, salvo qualche necessità dell’ultimo minuto, si acquistava solo la “dose”, ovvero il lievito. Il fornaio prendeva poi un “tanto” alla cottura per ogni chilo di ciambella realizzata, cifre comunque minime. La vera finalità era tenersi stretta la clientela e, perché no, rinsaldare una tradizione che, soprattutto in città, era più difficile mantenere. Le donne si alternavano per impastare sui banchi messi a disposizione quindi stendevano i loro filoni” nei padelloni di ferro e, per riconoscere i propri una volta sfornati, mettevano dei gusci d’uovo (al cozli) in modo differenziato. Ogni donna aveva la sua “mano” e ne uscivano esemplari tutti diversi: filoni bassi e “squagliati”, altri appuntiti e bruciacchiati ai bordi, altri ancora non lievitati a puntino (ingènghid), spesso “ingentiliti” dalle codine colorate o dalle perline trasparenti. Perché, anche lì, si consumava una sorta di rivalità tra “chi è pió brèva”. Anche se le più esperte si cimentavo con la pagnotta che aveva tempi di lievitazione, alta, dal pasto consistente e non troppo dolce, niente a che vedere con quelle attualmente in commercio che, diceva la Elsa, “agli assurmèja mi maritòz” ed inutile dire che nessuno di noi aveva mai visto la “colomba”, messa in commercio, poi, ad imitazione del panettone natalizio.
Dunque, tolti dal forno i padelloni venivano depositati a terra e le donne li passavano in rassegna, nella penombra, per ricercare i propri. Ho assistito personalmente a scene tragicomiche quando, di fronte alla malriuscita, c’era chi negava la maternità: non è la mia, non è la mia! Noi bambini, oltre a fornire piccoli aiuti (bóta la farèiena tal mèni… bóta zó e’ lat pianìn pianìn), eravamo lì in attesa del “ras-ciadùr”, quella specie di “battecco” ricavato dall’impasto residuo unito alla raschiatura, arrotolato tra le mani o intrecciato e poi cotto insieme alla ciambella; era l’anteprima della festa perché, a differenza della ciambella che si poteva “cminzè” solo il giorno di Pasqua, quello potevamo addentarlo subito.
Nell’attesa della cottura, partivano le chiacchiere, mentre il profumo della ciambella impregnava abiti e capell. I filoni, raffreddati, scrostati e tolti dai padelloni venivano riposti a strati, divisi da fogli di carta gialla e trasportati in cassette della frutta o scatoloni, per essere depositati nelle varie dimore e destinati a giacere fino al giorno di Pasqua quando la prima colazione sarebbe stata a base di ciambella, uova sode precedentemente benedette, un goccio di marsala o vermouth chinato, acquistato in bottiglione da due litri: anche per i bambini!
La ciambella, un lusso che, in quella quantità era concesso solo a Pasqua, veniva inevitabilmente razionata: la mamma tagliava le fette e le distribuiva a tavola, attenta ad non iniziare un filone nuovo finchè non fosse esaurito quello “cominciato” (anche e soprattutto nelle goloserie del tempo, lo spreco andava evitato). E’ noto che quando si incaricava altro familiare del prelievo del “filone” da portare a tavola, gli si intimava “fésc–ia, fésc-ia”. Era il dolce per eccellenza, soprattutto nelle case più modeste dove mai s’era vista una “colomba”, anche perché, nei primi anni ’50, mancando la televisione, la contaminazione pubblicitaria era molto limitata. Caso mai le donne più abili realizzavano la “pagnotta”, l’altro dolce tipicamente pasquale ma di preparazione assai più complessa per i tempi di lievitazione….. tonda e tosta nulla a che fare con quelle attualmente in commercio.
Quella delle “uova benedette”, più che tradizione, era definita una “devozione”: a me non sono mai piaciute, ma quelle bisognava mangiarle! Venivano precedentemente riposte in un piatto al centro della tavola, perché “prendessero” la benedizione domiciliare del prete; quando la mancanza di uova fresche non aveva consentito questo rito, si portavano successivamente in chiesa avvolte in un canovaccio. In genere questo compito veniva affidato a noi bambini, come pure il ritiro del ramoscello di ulivo benedetto (la pèlma). L’ulivo veniva per di più collocato sull’immagine sacra appesa al muro sopra il letto; il ramoscello rinsecchito, dell’anno prima, doveva essere bruciato e mai gettato nella spezzatura.
Altre convinzioni popolari attribuivano il maltempo, soprattutto la pioggia, di quel periodo, alla smèna ad pasiòun come se pure il cielo volesse piangere la morte di Cristo. Al sabato santo, allorchè si slegavano le campane che riprendevano i loro rituali rintocchi per annunciare la Resurrezione, si “mollavano” i bambini più piccoli che, si pensava, in quel giorno sarebbero stati facilitati nei loro primi passi.
Ma anche allora Pasqua non era Pasqua senza l’uovo di cioccolato. Il problema era che non c’era la certezza di poterlo avere: troppe le variabili di natura economica e anche di mentalità. L’uovo di cioccolato era considerato assai superfluo, ci si poteva aspirare solo contando sulla generosità di nonni, zii o “santoli” e non certo più di uno a testa! Noi bambini eravamo ovviamente attratti da quelli in mostra nelle vetrine: di tutte le dimensioni, nella loro carta luccicante e quelli esposti sui banchi del mercato di piazza Cavour, allestito in occasione delle festività pasquali. Ricordo il negozio della “Talmone”, una marca oggi scomparsa, sotto i portici di piazza Tre Martiri, dal lato opposto rispetto l’orologio: solo in un secondo momento infatti il negozio si trasferì nell’angolo con via IV Novembre; lì, in vetrina c’era la metà di un uovo gigante, “orlato” da una traccia tutto di cioccolata e pieno di altri dolcetti, una visione celestiale ed inedita per l’epoca!
Tuttavia, proprio dall’uovo di Pasqua trassi una lezione cui mi attengo tutt’oggi. Quando toccò allo zio regalarmi l’uovo, mi porto con sé al Bar Forcellini: da via Cairoli passammo attraverso il mercato, dove un mare di uova, tutte “grosse”, stordiva la vista e la fantasia, dato che era (ed è) risaputo che oltre la quantità di cioccolato, ciò che attirava maggiormente era la “sorpresa” contenuta e l’idea che nell’uovo “grosso” ci fossa una “grossa” sorpresa. Arrivati al Bar lo zio, alquanto squattrinato, mi comprò un uovo della “Perugina” dalle dimensioni pari a quelle di un uovo di gallina e, leggendo la delusione sul mio volto, tentò di spiegarmi che l’uovo destinatomi era piccolo ma di ottima qualità, mentre quelli “grossi” puntavano all’occhio ma non al gusto. Non so quanto allora potessi assimilare di un simile ragionamento, ma il fatto che non me lo sia mai dimenticato dimostra che non è stato vano.
Non ho mai rinunciato infatti a valutare attentamente il rapporto tra quantità e qualità.