“I la manda…”

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Pubblicato la prima volta il 29 Marzo 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “I la manda…”

“La mandano”. Cosa? La “bella vita”!

Era un’espressione che, il più delle volte celava l’invidia, o quantomeno un giudizio critico, nei confronti di chi mostrava un tenore di vita più elevato, pur appartenendo allo stesso ceto. A quell’epoca, la scarsità delle entrate per la mancanza di lavoro o per lavori per lo più precari ed occasionali, obbligava a mettere al primo posto “è magnè”, poi l’affitto (chi doveva pagarlo, se non aveva un alloggio provvisorio in attesa di una casa popolare), acqua e luce. Dunque non ce n’era per altro. La situazione andò migliorando verso la fine degli anni ’50 e primi ’60, ma sempre con cautela, sempre con la necessità di “fare il passo secondo la gamba” e, nel caso fosse avanzato qualche soldino, tolte le spese essenziali, era meglio tenerlo da parte perché “un sé sa mai.. s’ut capita un spèin…”.

Ricordo che il babbo aveva il terrore delle cambiali, dei debiti, delle rate, se soldi non ce n’erano abbastanza per pagare in contanti era la prova che non si doveva comperare e, secondo la sua mentalità, ne dovevano anche rimanere; insomma non si doveva restare “in bùleta”, sempre pensando a quel famoso spino. Tanto è vero che a casa nostra il televisore entrò quando gli altri “mettevano su” il secondo canale. Ed a poco valevano le implorazioni: “an vag méga a rubè… an so méga Palòni..”, erano le risposte.
Ed anche “nù guèrda ma lór chi fa cmè la zgèla, òz i chènta, dmèn i mòr ad fèma..”.

Eh sì perché più volte si è visto aggirare in quei paraggi “l’ufizièl giudizierie”, un tale che già nell’aspetto tradiva la sua missione, sempre vestito di grigio, i capelli impomatati, una smorfia sul viso pallido, come se gli desse fastidio non tanto l’operazione che doveva compiere, ma l’ambiente stesso, il vocìo del bambini, gli odori di cibi cotti che si mescolavano con altri: era lui, quello incaricato di pignorare i mobili, la radio, se c’era e qualunque oggetto avesse un minimo di valore quando le cambiali, dapprima andate “in protesto” comunque rimanevano insolute. Quando lo si vedeva salire la scala tutti, anche quelli non coinvolti, rabbrividivano. Più facile subire il “taglio dei fili” della luce: non si era ancora persa l’abitudine dello stare al buio o usare lumi a petrolio, candele. Si guardava quindi con sospetto chi sfoggiava abiti nuovi con troppa frequenza, chi si avvicinava ad uno stile di vita che non ci era mai appartenuto e che conoscevamo solo attraverso i film, come una realtà lontana che, anzi, probabilmente non era neppure realtà.
Così capitava di sentir dire “j a fat la festa ad cumpléan ma la fiòla znìna, s’invidèd… e sarà pó tót sòld butèd via! Tanimòdi la burdèla l’an capès… us véd ch’in fa nisùna fadìga” (hanno festeggiato il compleanno della figlia piccolina con una festa ed invitati… uno spreco vero e proprio dato che la bambina non è in grado di cogliere il senso… segno che fanno poca fatica a rimediare i soldi). Altre volte il giudizio era più secco e cattivo: “l’è tóti sbùrùnèdi…” (spacconate, diciamo così, solo spacconate).

E quanto sospetto nei confronti di chi trovava sempre le bagge, abiti, utensili e quant’altro a prezzi vantaggiosissimi in fantomatici negozi, in svendite eccezionali, mentre ogni volta che entravamo noi, negli stessi negozi, le offerte erano sempre finite. “I va in zìr sa dó bascòzi”, diceva la Elsa, ovvero con due “tasche”: una ufficiale, quella che conta sulle entrate dichiarate, l’altra con soldi in abbondanza “chi sa snà lór da dó chi vèin”. E che dire di chi, un bel giorno, arrivò a casa con l’automobile, quella NSU Prinz verdolina “un cùlór ca n’é metrìa gnènca per andè caghè”, commento generale ed anche “a ne sò cum chi faza…”.

Ma tant’è… oramai la corsa a “chi comprava prima” l’ultimo oggetto, simbolo del nuovo benessere, era inesorabilmente cominciata: il televisore, il frigorifero, la lavatrice, il telefono. Per quel che mi riguarda, tuttavia, lungi dall’essere “sparagnina” mi è addirittura scattata, appena in grado di provvedere a me stessa, la sindrome del “doppio”: di ogni prodotto, che si usi per la cucina o per la casa, devo avere sempre la scorta, non sopporto “la roba misurèda”, memore delle restrizioni patite a suo tempo ma nello “stile” ho tratto dai modi della mia famiglia quella che oggi viene pomposamente definita “sobrietà”, il rifuggire da ogni forma di esibizionismo.
Ricordo che il babbo, quando faceva acquisti importanti, concordava che la consegna avvenisse di sera, quand “i becamòrt in stà pió tlà finestra”: si trattava di scansare i ficcanaso, vero ma non dimeno di evitare un’inutile ostentazione verso chi, ancora, non aveva possibilità adeguate.

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