“Cut vègna…”

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Pubblicato la prima volta il 30 Novembre 2015 @ 19:08

Se proprio non se ne poteva fare meno si chiamava il dottore… Anche quello era un avvenimento speciale a prescindere dalla sua ripetitività.

Si “tirava fuori” la biancheria migliore custodita proprio per quell’occasione. Un’abitudine che gli anziani seguono ancora conservando nella loro bustina i capi nuovi “s’ut capita d’andè tl’uspidèl o la visita dè dùtór”… si preparava il catino, la saponetta nuova, quando c’era, l’asciugamano pulito se il dottore avesse voluto lavarsi le mani, si riordinava al meglio la stanza per “nù fè bróta figura”…si facevano sparire le tracce dei rimedi naturali o delle medicine somministrate senza prescrizione “si nà us ragna”…Perché verso il dottore c’era una forma di soggezione, diciamolo, una sensazione di inferiorità dovuta alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad una persona colta, “clà studiè” e che, già in partenza, apparteneva ad un ceto diverso, quello dei “padroni” laddove noi eravamo quelli che andavano far loro lavori e servizi, giacché, a quel tempo era assai improbabile che un povero diventasse medico. Così quando si era in attesa della visita una sottile ansia permeava tutta la famiglia e al cenno del medico che, entrando nel portone d’ingresso, dava la “voce”, dato che non c’erano campanelli: “dov’è, dov’è l’ammalato?”, la nonna gli andava incontro con una candela accesa anche se di giorno, perché le scale erano sempre al buio mancando le finestre e le lampadine che venivano puntualmente rubate ad qualche inquilino quando si bruciava la sua di casa. E la nonna “che scusa sgnór dùtór, la lampadèina la sé infùlminèda proprie adès…”. Noi bambini eravamo invece rassegnati al peggio perché sapevamo che se non erano stati sufficienti le erbe, le pomate, i fumenti, lo sciroppo, le supposte.. rimanevano solo le punture, quelle di penicillina, bianca, densa che richiedeva l’ago più grosso. Del resto le punture, quando non qualcuno di famiglia, ce le faceva la vicina di casa, con la siringa di vetro fatta bollire nel contenitore di alluminio e visti i buchi che improntavano le natiche, ho il sospetto che l’ago fosse lo stesso a prescindere dal medicinale da iniettare. Ricordo che, magrolina da sempre – tanto che la mamma diceva “tcè trópa sècca, i girà c’an tè dag da magnè – mi erano state prescritte le iniezioni di vitamina formate, ognuna, da due fiale: una di polvere (il farmaco effettivo), l’altra con il liquido diluente. Alla prima sentii un bruciore esagerato e mi lamentai non poco con l’esecutrice.. alla seconda nessun dolore e così in quelle successive tanto che “l’infermiera” occasionale, sicura di sé, commentò “eh us véd che tlà prima tè tirè al ciapi..”..finchè, un giorno, s’accorse che, esclusa la prima volta, mi aveva sempre somministrato solamente la fisiologica “eh un è gnìnt sé l’an t’ha fat bèin la n’ha gnènca fat mèl..”

Ma non sempre ci si poteva ridere su, in un periodo in cui curarsi era roba da ricchi, a cinquant’anni si era considerati vecchi e quindi, fisiologicamente destinati al declino.. il calo della vista dovuto alla cataratta era un fenomeno naturale con cui convivere, nessuna correzione con appositi occhiali per i bambini che, così, crescevano “stralòç” e quella deformazione, nota come “labbro leporino”, segnava il volto, e non solo, tutta la vita. La frattura del femore era, il più delle volte, mortale, e le altre comportavano mesi di invalidità a causa delle ingessature rigide…né ricordo di cure riabilitative tanto che spesso si sentiva dire “ u jè arvènz la gamba tinca..” Del resto di zoppicanti, di quelli che giravano con le grucce di legno tenute sotto le ascelle se ne vedevano parecchi.. reduci dalla guerra o mutilati dall’esplosione di mine postbelliche esplose accidentalmente.

L’asportazione dell’appendice comportava uno squarcio e, come già detto, quella delle tonsille avveniva senza anestesia in un ambulatorio, seduti sulle ginocchia dell’infermiera. … non meno demolitorio un altro intervento… allora con l’ulcera (è lózèr) veniva resecato quasi l’intero stomaco, oggi non è più necessario nemmeno l’intervento chirurgico.

Le malattie di carattere psichico o psicologico erano presto definite, chi soffriva della prima “l’èra un mat” e, se non aveva una famiglia disposta a prendersene cura o semplicemente tollerarlo, finiva in manicomio… le malattie psicologiche, quelle che oggi vengono sintetizzate con termine “stress”.. ecco quelle erano un lusso che solo nel mondo dei ricchi potevano avere cittadinanza.

Non era neppure diffusa la consapevolezza circa la causa e gli effetti dell’ictus che, oggi, si cerca di prevenire con uno stile di vita adeguato, allora la faccenda, in caso di sopravvivenza, si liquidava con un “l’avù na tucadìna”

Insomma era la dea salute a decidere e selezionare, il che portava ad un’accettazione pressoché naturale e capisco che questi ricordi possano apparire tetri e spezzare l’incantesimo di un passato del quale la memoria trattiene il meglio… ma a me sono rimasti impressi anche perché il riferimento alla salute era ricorrente nel linguaggio di quel tempo e, con assoluta disinvoltura, formava auguri e malauguri… “cut vègna un chènchèr” resa celebre dall‘on Peppone, indirizzata da Don Camillo… nel film ci faceva ridere ma nella vita reale segnava il culmine di una lite…

“Cut vègna un’azidènt, un sbòc ad sangue (terribile!), cut ciapés la pelagra, la sifilide la j’andè tlà testa, va murìa mazèd, t’am pèr un cadevèr, ca n’arivès ma dmatèina” e c’era chi, amante delle nuove tecnologie, mandava un “cólp eletric”: erano espressioni che, il più delle volte, si lanciavano con rabbia ma, non raramente, con ironia… un po’ come al “parulazi” che noi bambini assorbivamo, tanto erano frequenti nei discorsi degli adulti, senza conoscerne, spesso, il significato.

Ma ritornando al dottore, pure riconoscendone l’autorevolezza di base, era spesso oggetto di “chiacchiere” che creavano il mito “quèl l’è brèv.. clà volta su n’èra per ló Tizio è murìva”…o lo demoliva.. “un capés gnìnt us dmanda ma nun cus c’avém… ul duvrà dì ló….. l’ha fat e’ dùtór perché ul feva e’ su bà e l’aveva l’ambulatorie prònt..”“ut riempés ad medicèini” .. “ut dà sèmpra la stessa roba..”

O, come dice ancora la Elsa, “quand in capés quèl che t’è… i dis clè un virus o e’ sistèma nervòs”.

Buona Memoria,

Grazia Nardi

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