Parlate Riminesi #19

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Pubblicato la prima volta il 5 Febbraio 2017 @ 20:12

Foto di Davide Minghini

In questa puntata comincerò a trattare un nuovo argomento, che è la formazione dei plurali maschili.

Questo è uno degli aspetti in cui la grammatica dei dialetti romagnoli è molto diversa da quella dell’italiano. In italiano per formare il maschile plurale solitamente si cambia la vocale finale, che è una vocale non accentata. Ad esempio il plurale di «fiore» (che si pronuncia «fióre»), è «fiori» («fióri»), sicché il plurale si ottiene cambiando la ‘e’ finale con ‘i’ e lasciando invariata la vocale accentata, che è ‘ó’. Nei dialetti romagnoli la vocale finale dei maschili in genere è caduta, ma si può avere ugualmente una differenza fra il singolare e il plurale, perché in molti casi nel plurale c’è una vocale accentata diversa. Ad esempio la voce corrispondente a «fiore» nel riminese è ‘fiór’, e il suo plurale è ‘fiùr’, con ‘ù’. Analogamente il plurale di ‘muróš’ «moroso» è ‘murùš’, e quello di ‘fórne’ «forno» è ‘fùrne’ (basti ricordare che l’attuale Via Bufalini all’inizio del XX secolo si chiamava ancora ‘l’andròun di fùrne’, cioè letteralmente «l’androne dei forni»). In questi casi si parla di alternanza vocalica fra il singolare e il plurale.

(Qui devo aggiungere che nella Romagna sud-orientale, che comprende anche l’area riminese, l’alternanza vocalica è stata in parte abbandonata, soprattutto da parte dei parlanti nati dopo la Seconda guerra mondiale, per cui oggi alcuni direbbero ‘fiór’ anche per il plurale. Ci sono poi dei parlanti che oscillano, nel senso che esibiscono alcune alternanze vocaliche, ma non altre, e c’è anche chi oscilla nella formazione di un medesimo plurale, per cui a volte per «fiori» può dire ‘fiór’ e altre volte ‘fiùr’. Qui di seguito non ripeterò ogni volta questa precisazione, ma il lettore tenga presente che si possono trovare queste oscillazioni anche in parlanti riminesi che per il resto hanno mantenuto una buona dimestichezza col dialetto.)

Un’alternanza simile alla precedente è quella fra ‘é’ ed ‘ì’. Ad esempio il plurale di ‘méš’ «mese» è ‘mìš’, e quello di ‘rimnéš’ «riminese» è ‘rimnìš’. (Bisogna dire, però, che questa alternanza è stata una delle prime a essere abbandonate a Rimini, e già nella prima metà del XX secolo era rimasta per lo più nelle voci che si usano più spesso al plurale, come appunto quelle corrispondenti a «mese», «riminese» e poche altre. Ciò non toglie comunque che anche questa alternanza fosse ben conservata in alcuni parlanti. Ad esempio il plurale di ‘pél’ «pelo» era originariamente ‘pìl’, e mi è capitato di sentire questa forma declinata anche in parlanti riminesi relativamente giovani. Si tenga presente inoltre che le forme che vengono progressivamente abbandonate si conservano meglio in espressioni “cristallizzate”, come i modi di dire, i proverbi eccetera.)

Ora per andare avanti dobbiamo riprendere la questione delle vocali lunghe e brevi. Ne ho già accennato più volte in precedenza, e ogni volta ho rinunciato ad affrontare una trattazione sistematica e rigorosa della “quantità” delle vocali, perché è un argomento molto complesso, e avrei bisogno di interagire direttamente coi miei lettori, facendo sentire ogni volta la pronuncia delle parole. Così continuerò ad affrontare la questione fornendo qualche indicazione di massima sugli esempi trattati, nella speranza che un poco alla volta i lettori possano prendere dimestichezza con gli aspetti quantitativi.

In precedenza, trattando la questione delle quantità, ho detto che una vocale breve spesso si può riconoscere anche dall’effetto che produce sulla consonante che segue; infatti tale consonante tende ad allungarsi, tanto che alcuni autori dialettali sono indotti a scriverla doppia. Ad esempio nella parola corrispondente a «brutto» c’è una ‘ó’, ma questa ‘ó’ è più breve di quella che si trova in ‘fiór’, e di conseguenza la ‘t’ che viene dopo la ‘ó’ tende ad allungarsi, per cui molti scriverebbero ‘brótt’.

Qualcuno, leggendo ciò che ho appena scritto, avrà pensato che se noi mettiamo una sola ‘r’ in ‘fiór’ e due ‘t’ in ‘brótt’ è perché siamo condizionati dalla grafia dell’italiano. Ma la cosa non è così semplice, perché le vocali brevi si possono trovare anche in parole che non hanno la doppia in italiano, e in quel caso possiamo comunque raddoppiare la consonante per mettere in evidenza questa cosa. Ad esempio le voci corrispondenti a «stufo» e «fumo» sono ‘stóff’ e ‘fómm’, con la ‘ó’ breve.

(Con questo non voglio dire che si debba per forza raddoppiare la consonante che viene dopo una vocale breve. Per me andrebbe bene anche se si trovasse un modo di distinguere graficamente le vocali brevi da quelle lunghe. Ma, siccome gli autori dialettali riminesi non hanno mai definito una convenzione grafica per esprimere le quantità, io qui mi “arrangerò” raddoppiando le consonanti dopo le vocali brevi – il che ovviamente si può fare solo quando la vocale breve è seguita da una consonante.)

Ebbene, che le vocali brevi siano diverse da quelle lunghe lo dimostra anche il fatto che si hanno alternanze vocaliche diverse nella formazione dei maschili. In precedenza ho detto che la ‘ó’ si alterna con ‘ù’, ma questo è vero solo per la ‘ó’ lunga che si trova in parole come ‘fiór’, ‘muróš’ e ‘fórne’. Invece la ‘ó’ breve che si trova in parole come ‘brótt’ e ‘stóff’ è invariante. Infatti anche i plurali corrispondenti a «brutti» e «stufi» sono ‘brótt’ e ‘stóff’, e nessuno direbbe ‘brùtt’ e ‘stùff’ (o meglio ‘brùt’ e ‘stùf’, visto che la ‘u’ accentata breve in riminese non esiste).

(Se anziché raddoppiare la consonante che segue una vocale breve avessimo deciso di raddoppiare le vocali lunghe, ora scriveremmo ‘fióor’, ‘muróoš’ e ‘fóorne’, in opposizione a ‘brót’ e ‘stóf’, e potremmo dire la ‘óo’ si alterna con ‘ùu’, mentre la ‘ó’ resta invariata. Questa soluzione grafica ci semplificherebbe molto la vita per spiegare certe cose, ma sarebbe una grafia molto lontana da quella tradizionale dell’italiano, a cui siamo ormai abituati.)

Ciò che ho detto circa la ‘ó’ breve vale anche per la ‘é’ breve. Anche questa, infatti, è invariante. Consideriamo ad esempio parole come ‘drétt’ «dritto», ‘léss’ «liscio» e ‘gréll’ «grillo»: i plurali sono ancora ‘drétt’, ‘léss’ e ‘gréll’; e nessuno direbbe ‘drìtt’, ‘lìss’ e ‘grìll’ (o ‘drìt’, ‘lìs’ e ‘grìl’). Invece abbiamo visto che la ‘é’ lunga si alterna (o comunque si alternava) con ‘ì’.

(Se avessimo deciso di raddoppiare le vocali lunghe, scrivendo ‘méeš’, ‘rimnéeš’ eccetera, ora potremmo dire che la ‘ée’ si alterna con ‘ìi’, mentre la ‘é’ resta invariata.)

Restano da trattare le vocali aperte ‘è’ e ‘ò’.

Cominciamo col caso più semplice, che è quello della ‘è’ breve. La troviamo ad esempio in parole come ‘casètt’ «cassetto», ‘pèss’ «pesce», ‘cavèll’ «capello», ‘batècc’ «ramoscello». Ebbene, questa vocale nel plurale si alterna con quella più chiusa, cioè con la ‘é’ breve, sicché i plurali delle voci qui sopra sono, rispettivamente, ‘casétt’, ‘péss’, ‘cavéll’, ‘batécc’.

Molti di coloro che scrivono in italiano sono poco abituati a distinguere l’accento grave da quello acuto, e può sembrare una cosa di poco conto, ma la differenza fra i due suoni è molto importante, e tutti coloro che parlano un dialetto riminese la sentono chiaramente, anche se non sempre ne sono consapevoli. Per aiutarci nel riconoscere l’opposizione fra le due vocali possiamo notare che il plurale ‘casétt’ «cassetti» fa rima con ‘drétt’ «dritto», il che non è vero per il singolare ‘casètt’. Analogamente il plurale ‘cavéll’ «capelli» fa rima con ‘gréll’ «grillo», il che non è vero per il singolare ‘cavèll’. Poi c’è il plurale ‘batécc’, che fa rima con ‘brécc’ «asino». E addirittura il plurale ‘péss’ «pesci» è uguale alla parola che significa «piscio», ben diversa dal singolare ‘pèss’.

Davide Pioggia

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