Pubblicato la prima volta il 29 Gennaio 2017 @ 20:17
La volta scorsa ho cercato di spiegare per quale ragione nella parlata tipicamente urbana di Rimini «fuoco» si dica ‘fóg’, mentre nelle parlate rustiche, come nella maggior parte della Romagna, si dice ‘fùg’.
Ora vorrei cercare di spiegare per quale ragione nella parlata urbana «prete» si dica ‘prét’, mentre nelle parlate rustiche, come nella maggior parte della Romagna, si dice ‘prit’. Vedremo che la spiegazione è analoga.
Bisogna partire dall’etimo latino di «prete», che è PRESBYTER. In questa parola la S cadde molto presto, e nel volgare in una prima fase si ebbe PRÈVETE. Questo sviluppo si conserva tuttora in alcune zone dell’Italia centro-meridionale, e altrove si trovano varianti fortemente conservate, come PRÈVITE (da cui cognomi come Previti eccetera). Questo sarebbe anche lo sviluppo in italiano, se in Toscana e in altre regioni non fosse caduta la penultima sillaba, da cui lo sviluppo PRÈTE. Osserviamo che in questa parola l’italiano standard, basato sulla pronuncia toscana, ha una ‘e’ aperta, mentre in Romagna si pronuncia solitamente «préte», con la ‘e’ chiusa. La pronuncia originaria del volgare è quella con È, conservata nell’Italia centrale, mentre la pronuncia che si trova nell’italiano di Romagna è stata condizionata dai successivi sviluppi dialettali.
In precedenza, trattando il caso di «fuoco», ho detto che in alcune zone dell’Impero la Ò originaria di alcune parole era stata sostituita da UÒ. Ebbene, in modo del tutto analogo la È in alcune parole era stata sostituita da IÈ. Quindi da PRÈVETE e PRÈTE si ebbero anche PRIÈVETE e PRIÈTE. Anche questi sviluppi si sono conservati in alcune zone dell’Italia centro-meridionale.
Trattando il caso di «fuòco», ho fatto notare che quella ‘u’, essendo non accentata, non è una vera e propria ‘u’, ma è quel suono che si trova ad esempio all’inizio della parola inglese ‘woman’, e se anche noi, in italiano, lo scrivessimo in quel modo, non dovremmo scrivere «uomo, fuoco» eccetera, ma «womo, fwoco» eccetera. Ebbene, anche per la ‘i’ di «ieri» si può fare in discorso analogo: non è una ‘i’ vera e propria, ma è quel suono che gli inglesi scrivono ‘y’ all’inizio della parola ‘yes’, e se anche noi lo scrivessimo in quel modo dovremmo scrivere «yeri» anziché «ieri». In verità in passato ci fu in Italia qualche tentativo di riforma ortografica teso a distinguere questo suono dalla ‘i’ vera e propria, e i fautori di tale riforma proposero di scriverlo ‘j’, per cui oggi dovremmo scrivere «jeri» (e anche «mjele, sjepe, fjeno» eccetera). Poi però questa riforma non riuscì a imporsi, e la ‘j’ si trova solo in alcuni vecchi testi, o in alcuni nomi che hanno conservato la grafia originaria, come «Jacopo».
Tornando a «prete», bisogna dire dunque che la È originaria non fu sostituita esattamente da IÈ, ma piuttosto da JÈ, per cui accanto a PRÈVETE e PRÈTE in alcune zone della Penisola si ebbero PRJÈVETE e PRJÈTE. In seguito in Romagna e in altre zone la È del nesso JÈ si chiuse. Qui, ancora una volta, dobbiamo stare attenti a non farci fuorviare dalla pronuncia attuale dell’italiano di Romagna. La volta scorsa ho detto che FWÒGO divenne FWÓGO, e magari qualcuno sarà rimasto perplesso, visto che oggi nell’italiano di Rimini (e di buona parte della Romagna) di dice «fuòco», con la ‘o’ aperta. Invece, se ora dico che PRJÈTE divenne PRJÉTE, potrebbe sembrare più facile credermi, visto che oggi nell’italiano di Romagna il nesso «ie» si pronuncia «ié» (anzi: per la precisione «jé»). Ma, come dicevo, non dobbiamo farci condizionare dall’attuale italiano di Romagna: queste trasformazioni avvennero molti secoli prima della diffusione dell’italiano, e la trasformazione di JÈ in JÉ è del tutto analoga alla trasformazione di WÒ in WÓ. Dunque in Romagna a un certo punto si ebbe PRJÉTE e di qui, in seguito alla caduta della vocale finale, un esito arcaico ‘prjét’. (Anche qui si potrebbe avanzare qualche riserva sull’effettivo ordine cronologico di queste due trasformazioni, come ho fatto in precedenza per «fuoco», ma è una questione che non è essenziale per la nostra analisi: conta solo che a un certo punto si sia avuto ‘prjét’) .
Ora, in precedenza, trattando il caso di «fuoco», ho detto che è piuttosto facile spiegare come si passi da ‘fwóg’ al ‘fóg’ che si sente oggi nella parlata tipicamente urbana di Rimini: basta ipotizzare che sia caduta la ‘w’. Semmai è difficile spiegare come si passi da ‘fwóg’ all’esito ‘fùg’ che si trova in gran parte della Romagna, e per spiegare questo sviluppo ho detto che bisogna ipotizzare che l’accento si sia spostato sul primo elemento del nesso ‘wó’, che così è diventato una vera e propria ‘u’, e che in seguito il secondo elemento, rimasto senza accento, sia caduto. Dunque da ‘fwóg’ prima ‘fùog’, e quindi ‘fùg’. Ne consegue che i dialetti e le parlate in cui si trova ‘fóg’ sono quelli che hanno respinto lo spostamento dell’accento quando questo si diffuse in gran parte della Romagna.
Ebbene, un discorso del tutto analogo si può fare a partire da ‘prjét’. Anche se l’esito ‘prét’ è molto raro in Romagna, è assai facile spiegare il passaggio da ‘prjét’ a ‘prét’: basta ipotizzare che sia caduta la ‘j’. Invece è più difficile spiegare il passaggio da ‘prjét’ a ‘prìt’. Anche in questo caso bisogna ipotizzare che prima si sia spostato l’accento sul primo elemento del nesso ‘jé’, che è diventato una vera e propria ‘i’, e che in seguito sia caduto il secondo elemento, rimasto senza accento. Dunque da ‘prjét’ si sarà avuto prima ‘prìet’, e quindi ‘prìt’. Secondo questa ricostruzione, il diverso esito che si trova nell’area urbana di Rimini si spiega ipotizzando che il ceto urbano abbia respinto la trasformazione da ‘prjét’ e ‘prìet’ che si stava imponendo nelle parlate rustiche circostanti.
A qualcuno tutte queste ipotesi potranno sembrare piuttosto arbitrarie, ma ho già detto che queste fasi dello sviluppo spiegano anche altri fatti e trovano conferma in alcune informazioni che abbiamo sui dialetti romagnoli del passato. È vero che le informazioni sul passato sono piuttosto parziali e in parte ambigue, ma queste informazioni, ancorché parziali, vanno a collocarsi perfettamente nella ricostruzione che si ottiene dal nostro quadro teorico, come tessere di un mosaico.
Davide Pioggia