Pubblicato la prima volta il 27 Agosto 2018 @ 09:47
Fugarena, fugareza
San Jusef aligreza
e la Madona la s’indreza.
[Foschi 1979-80]
Falò, falò
San Giuseppe allegrezza
e la Madonna viene innalzata.
Questa filastrocca, citata dagli antropologi Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi nel libro “Calendario e folklore in Romagna” (MediaNews, 1995), veniva cantata dai pescatori romagnoli durante l’accensione sulla spiaggia dei tradizionali falò nella notte tra il 18 e il 19 marzo; tra le strofe si possono ovviamente intravedere i riferimenti sia al Santo festeggiato ma anche all’approssimarsi dell’Annunciazione (25 marzo).
La “Fogheraccia” è, quindi, uno dei riti folklorici più antichi e radicati anche nella Provincia di Rimini, sia nell’entroterra che in riviera: talmente sentito dalla popolazione da essere tutt’oggi celebrato e condiviso, pur in tono minore rispetto al recente passato per ovvii motivi di pubblica sicurezza, ma sopravvivendo allo scorrere del tempo attraverso alcuni irrinunciabili appuntamenti collettivi.
Ma come, dove e quando nasce la “Fogheraccia”?
Premettiamo che il rito del “fuoco purificatore” è una delle tradizioni ancestrali più diffuse nel folklore e nell’antropologia culturale. Come osserva Frazer (1973), «…il fuoco è considerato promotore della crescita dei raccolti e del benessere dell’uomo e delle bestie, o positivamente stimolandoli, o negativamente stornando i pericoli o le calamità che lo minacciano da cause come tuoni e lampi, incendi, muffa, insetti, sterilità, malattia, e non minore delle altre, stregoneria…». In Italia sono innumerevoli e più o meno famose le tradizioni locali – a far data dal solstizio d’inverno (21 dicembre) – che ruotano attorno alla funzione simbolica del fuoco e/o all’accensione di falò: dal giorno di Natale, al Capodanno sino all’Epifania (tra le altre il “Il fuoco del Bambino” in Liguria, il “panevin” nelle Venezie, il “nataleccio” in Garfagnana, la “focàra” in Calabria o la “zuccata” in Sicilia), al giorno di Sant’Antonio (17 gennaio, Sardegna) e, in modo sempre più frequente, all’approssimarsi dell’equinozio (ovvero il passaggio dall’inverno alla primavera) del 21 marzo.
[Si noti che il falò è l’accensione ed esposizione pubblica del fuoco: altrettanto diffuse erano (e sono) le tradizioni legate invece ai riti privati, riconducibili principalmente alla combustione del “ceppo” o a piante specifiche – come i rami di ginepro, secondo la tradizione bolognese – nel caminetto domestico].
Parallelamente alla funzione propiziatoria, l’uso di bruciare nella pira l’effige di vecchi e/o streghe poteva significare l’allontanamento delle anime dei morti ritardatari e auspicare un veloce ritorno alla normalità: un fuoco, quindi, che consuma il tempo passato aprendo la strada al tempo nuovo.
Nello specifico, i falò di marzo accesi nelle campagne romagnole avevano, almeno in origine, un intento propiziatorio, messo in atto significativamente proprio all’inizio del mese di marzo, che segna la fine dell’inverno e l’arrivo della buona stagione, la cui luce e calore i falò intendono richiamare, secondo i princìpi della magia imitativa. In origine, essi sancivano probabilmente anche la fine dell’anno nuovo e bruciavano così il tempo passato come purificazione in vista del tempo futuro: infatti nell’antica Roma (fino al 153 a.C.) e presso altre popolazioni antiche l’anno cominciava il 1° marzo. Sicuramente, quindi, la “Fogheraccia” è riconducibile all’equinozio e al trapasso definitivo dall’inverno alla primavera – quindi alla “rinascita” biologica, rafforzata dal rogo delle spuntature e dall’eliminazione fisica delle piante rinsecchite e dei rifiuti organici rurali della stagione precedente. Non solo rinascita, quindi, ma anche auspicio di prosperità al momento dell’ingresso in una nuova stagione.
È interessante notare che, prima della notte di San Giuseppe, in Romagna troviamo anche la celebrazione del “Lume a Marzo” (coincidente prima con gli ultimi tre giorni di febbraio e con i primi tre di marzo, poi con l’ultimo di febbraio e il primo di marzo), ovvero un periodo in cui i contadini, sul far della sera, accendevano fuochi nei campi; attorno ai falò o saltellando con le ‘fiaccole’ di paglia venivano quindi cantate formule (differenti a seconda della località) per auspicare un buon raccolto. Nel riminese, ad esempio, si cantava:
Lom a merz, lom a merz,
una spiga faza un berch;
un berch, un barcarol,
una spiga un quartarol;
un berch, una barchetta,
tri quattrèn una malètta.
(Nanni 1924)
Lume a marzo, lume a marzo,
una spiga produca una bica;
una bica, una bichetta,
una spiga un quartarolo;
una bica, una bichetta,
tre quattrini un piccolo sacco.
In alcune zone dell’entroterra romagnolo, il simbolismo allegorico del fuoco s’interseca con il rito della “Segavecchia” (o, semplicemente, della “Vecchia”), tenuto il giovedì di mezza quaresima, durante il quale un fantoccio con le sembianze di una vecchia, ripieno di frutta secca, confetti o addirittura monete, viene trainato su un carro mascherato tra suoni di trombe, battaglie con la frutta e grida, per essere poi squarciato da appositi e selezionati “segatori” per la gioia dei giovani in attesa dei doni contenuti e, infine, arso in piazza. In questo caso possiamo intravedere sì riverberi tardivi del precedente Carnevale (le maschere, i suoni, l’abbondanza) ma, nell’uccisione della Vecchia, certamente un rito propiziatorio e una metafora della terra, gravida di frutti e benessere primaverili dopo lo sterile inverno.
[Curiosamente sottolineiamo anche che gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo vengono definiti i dé dla Canucéra, nei quali – secondo la tradizione – «vi è un’ora infausta, che però nessuno sa quale sia, che fa riuscire male tutto» (Ercolani, 1971) a causa di un misterioso quanto infausto influsso. Perciò, in quei giorni, è bene non svolgere alcun lavoro poiché «i contadini credevano che vi fosse un’ora cattiva per potar le viti, tagliar la legna e conciare gli alberi fruttiferi; e, per non saper quale sia, se ne astengono totalmente…» (Placucci 1818)].
Bibliografia:
- E. Baldini – G. Bellosi, “Calendario e folklore in Romagna”, MediaNews 1995
- E. Baldini, “Alle radici del folklore romagnolo. Origine e significato delle tradizioni e superstizioni”, Longo 1996
- E. Baldini – G. Bellosi, “Tenebroso Natale – il lato oscuro della Grande Festa”, Editori Laterza, 2012
Anni 60 avevo 11 anni ,nel periodo di marzo si raccoglieva la legna per la fogheraccia di san giuseppe la si ammuchiava in varie zone , poi la sera della riccorrenza la si preparava in una catasta enorme , e alla sera la si incendiava. Un ricordo meraviglioso.
Anni sessanta del secolo scorsoera un avvenimento gestito per tutto il mese precedente la sera del 18, noi bambini e regazzi ci davamo da fare per rimadia re la bica di legna più grande perchè si faceva in ognoi ghetto in concorrenza specialmente in campagna e nelle frazioni, quando si accendeva era una festa e in alcuni posti si magiavano dei dolci e si be eva qualche bicchiere di vino e si cantava fino a che si spegnevano le fiamme, ed alla fine i più matti saltavano oltre le braci che erano ancora fumanti, i ricordi fanno rivivere tutto anche se sono passati quasi cinquanta anni.
Sono nato nel ’69 e abitavo in via Roma. Ricordo che in quello che era già il parco che portava al mare e che ricopriva il greto del fiume dove scorreva l’ausa, noi bambini facevamo a gara per fare la montagna di legna più alta. Avevi solo l’imbarazzo della scelta. Dovevi decidere quale era la fogheraccia che volevi far crescere. A distanza di cento metri potevi trovarne diverse. E alla fine ti convincevi che la tua era davvero la più grande e bella di tutta la città