Pubblicato la prima volta il 6 Giugno 2017 @ 09:43
Capitolo 62 – 1454 Rimax e Sigismondo
Agostino di Duccio era un’altra di quelle persone, per la verità molto rare, con cui Rimax era entrato immediatamente in sintonia. Certo non c’era la stessa intesa provata con Leonardo ma il gatto ne era ugualmente soddisfatto. Quasi percepissero a vicenda l’uno l’aura dell’altro. La mente dell’uomo, votata all’arte, era completamente aperta al bello, al nuovo e guardava con occhi senza pregiudizi ciò che lo circondava, assimilandolo completamente. Rimax si crogiolava in questa comunione di pensiero e lentamente e sottilmente lo influenzava senza che l’umano se ne rendesse conto, proprio come aveva fatto con tutti gli altri umani con cui era venuto in contatto.
Da quando era apparso il gatto ad Agostino sembrava che le idee affluissero più copiose, libere e complete. Aveva attribuito questa improvvisa nuova creatività alla presenza di Rimax e aveva deciso di tenerselo vicino, coccolandolo e nutrendolo con gli avanzi della sua tavola.
Dorature e fregi, bassorilievi e stucchi, l’alternarsi di marmi colorati e lesene candide, tutto fioriva sotto le mani dell’artista in un canto alla natura e all’uomo che solo lontanamente si associava alle idee religiose dell’epoca. La lunga teoria di putti che coronava le balaustre, cherubini nudi e paffuti, angioletti maliziosi, ne erano la prova lampante.
Gli accadeva a volte di distogliere un attimo l’attenzione da quello che stava facendo e alzare inconsciamente lo sguardo a cercare il gatto. E allora, d’improvviso, come se le sue idee inespresse convergessero verso il punto dove il gatto era accovacciato, l’idea in embrione che covava da tempo sbocciava nella sua mente e acquistava di colpo sostanza e significato. Spunti che erano sempre stati presenti, brandelli frammentati e inconsistenti, che la presenza del gatto focalizzava, acquisivano di colpo senso compiuto.
Era stato così per i putti, era stato così per gli elefanti che sorreggevano il sarcofago di Isotta. Pesante marmo bardiglio delle cave di Verona, modellato in forme rotondeggianti. Spesso si chiedeva come aveva potuto non aver pensato da subito a utilizzare un simile animale che dopo tutto appariva anche nello stemma dei Malatesta!
Un giorno, mentre Rimax lo osservava, seduto sulle zampe posteriori, gli era improvvisamente venuto lo sbuzzo di scolpire tutta una serie di piccoli topi nel marmo verde di un blocco che, per la rottura delle corde dalle quali era trattenuto, era caduto da un’impalcatura, frantumandosi e diventando quindi inutilizzabile. Panciuti, con larghe orecchie tonde, elefanti in miniatura se non fosse stato per la mancanza della proboscide e la presenza di due grossi incisivi da roditore. Non avevano niente a che fare col Tempio. Topi appunto, con cui si divertiva a circondare il gatto quando dormiva. Non sapeva perché ma gli sembrava che fossero importanti.
Con l’altro artista, Matteo dè Pasti, Rimax non aveva la medesima familiarità ma riconosceva che costui era un architetto brillante, che si occupava dell’acquisto dei materiali, della progettazione delle cappelle interne, delle medaglie celebrative e che già da diversi anni viveva alla corte di Sigismondo.
Steso con le braccia incrociate dietro la testa, sotto il baldacchino che sovrastava il grande letto, Sigismondo osservava Isotta pettinarsi i lunghi capelli.
Amava Isotta. E adesso che era vedovo avrebbe anche potuto sposarla. Polissena era morta da più di tre anni ormai, ma lui non si era ancora deciso. Non apparteneva a una famiglia ricca, non possedeva beni di sorta e sebbene la sua famiglia fosse imparentata coi Signori di Sassoferrato non avrebbe portato in dote né danaro né fruttuose alleanze.
Che era poi il motivo per il quale Sigismondo, pur di ottenere vantaggi politici e militari, nonché ingenti capitali, si era già sposato due volte. Polissena aveva portato in dote il ricco castello di Mondavio e la famiglia degli Sforza era una famiglia importante e influente che gli aveva affidato armi e soldati coi quali aveva guerreggiato e vinto in mezza Italia. Anche il precedente matrimonio con Ginevra d’Este, una lontana cugina, gli aveva procurato preziose alleanze e committenze militari di una certa rilevanza fino alla sua prematura morte.
Naturalmente i suoi nemici avevano malignato su queste dipartite sostenendo che una fosse stata avvelenata, e l’altra soffocata con un laccio da un sicario, dietro suo ordine.
Il suo fantasticare fu interrotto dalla voce di Isotta:
– Certo che quella chiesa è veramente brutta.
-Come? Ma se sta venendo meravigliosamente bene! Le cappelle sono…
– Ma io sto parlando dell’esterno. Quei muri cupi fatti di mattoni scuri, lisci, disadorni.
– Non potevo certo abbatterla. I miei avi sono sepolti al suo interno. Anche se avrei preferito di gran lunga buttare giù tutto quanto e ricostruire dalle fondamenta un tempio degno del mio nome e della mia casata.
– A me un’idea, però, è venuta – disse maliziosamente Isotta.
– Quale idea?
Isotta gli aveva raccontato che il ramo della sua famiglia era originario di Sassoferrato, dove suo zio era il Signore della città. In famiglia si narrava la storia dell’Abbazia della Santa Croce, una chiesa a pianta greca di Sassoferrato che era appartenuta all’ordine dei Cavalieri Templari, costruita su un luogo ritenuto magico, sui resti di un tempio dedicato al dio Mitra. Dopo la caduta dell’Ordine e la successiva caccia ai templari e soprattutto ai loro beni, la chiesa era stata in brevissimo tempo inglobata in un edificio più grande che la nascondeva completamente, scomparendo così alle ricerche dei nemici dei cavalieri, alla vista dei passanti e, piano piano, alla memoria della gente.
Perché, aveva proposto Isotta, non incapsulare alla stessa maniera anche la vecchia chiesa francescana? Con una nuova veste adorna di pietre e marmi preziosi? Una chiesa attorno a una chiesa.
Sigismondo la fissò per un lungo momento.
Era proprio una brillante soluzione. Una bellissima idea. Amava quella donna.
La prese per la mano attirandola verso di sé.
Da allora era passato quasi un anno quando, una mattina, con l’aiuto di un palafreniere, Sigismondo salì agilmente a cavallo ed uscì dal portone sulla strada chiamata “uriolo della fontana” a causa del rigagnolo che usciva dalla fontana romana sulla vicina piazza. Lasciò la casa di Isotta e si diresse verso le mura, tenendo il cavallo al passo per dar modo ai due armigeri che lo proteggevano di seguirlo agevolmente.
Dopo poche decine di metri svoltò nella sinuosa via delle Scuderie, costellata di pozzanghere che riflettevano la luce radente dello scarso sole di aprile. Sigismondo rabbrividì leggermente nell’aria frizzante del mattino e storse il naso alla vista dei fatiscenti tuguri addossati alle vecchie mura cittadine che affiancavano la strada. Non per la prima volta pensò che avrebbe dovuto mettere fine a quello stato di cose, uno sconcio assolutamente inadatto alla città rinascimentale che sognava, rilucente di pietre candide e marmi. Il cavallo calpestava il fango indurito dal freddo della notte con uno strano rumore secco e floscio allo stesso tempo e ben presto lasciò alle spalle la zona delle rimesse e delle scuderie raggiungendo, attraverso uno stretto budello fra le case, un ampio spazio, situato fra tre chiese, antistante la fabbrica del Tempio.
Agostino abitava a poche case di distanza dalla fabbrica e quando era uscito, quella mattina, Rimax, curioso come solo può essere un gatto, gli si era accodato, trotterellando rasente le abitazioni addossate le une alle altre e fermandosi spesso ad annusare, interessato, la raccolta di rifiuti di ogni tipo che ingombrava la stretta via.
Giunto sullo spiazzo davanti alla chiesa scalò una catasta di marmi bianchi e si trovò un posticino soleggiato e al riparo dalla leggera brezza, sulla sommità. Sotto di lui Matteo e Agostino parlavano con Leon Battista Alberti, l’architetto, che aveva già srotolato su un tavolaccio i suoi disegni. Tutti e tre si riscossero dai loro discorsi nel momento che Sigismondo apparve nello spiazzo. Si inchinarono rispettosamente mentre il Signore scendeva da cavallo e gli si fecero solleciti incontro mentre lui si avvicinava.
– Sono questi i marmi che aspettavamo? – chiese Sigismondo, indicando la catasta sulla cui cima riposava il gatto. – Mi sembrano ben poca cosa. Pare materiale di scarto se non addirittura materiale già usato! E’ in questa maniera che avete speso i miei ducati?
– No, mio Signore – gli rispose Matteo – i marmi che aspettiamo non sono ancora arrivati e sì, avete ragione, questi marmi che vedete sono proprio stati usati! In compenso non vi costano nulla! Leon Battista ha avuto l’idea di far raccogliere tutte le lapidi romane che costeggiano la via Flaminia fino al terzo miglio e anche quelle di un dismesso cimitero ebraico.
Cimiteri? Rimax guardò Sigismondo passare perplesso la mano su un paio di lastre seguendo con il dito le iscrizioni latine e i profondi scassi dell’alfabeto ebraico.
– So cosa pensate, mio Signore – riprese a dire Matteo – ma vi assicuro che le lastre verranno ripulite e squadrate attentamente. Una volta montate lungo la parete, con le iscrizioni murate verso l’interno nessuno capirà cos’erano in origine e potremo in questo modo risparmiare risorse per l’acquisto dei marmi policromi che ci occorrono.
– Sì, devo convenire che è uno strattagemma ingegnoso. E per il resto?
– Il denaro è sempre la nostra causa limitante – rispose Matteo con la familiarità che gli veniva dalla lunga frequentazione della corte di Sigismondo – le maestranze costano, mio Signore, e anche se dal contado i villani vengono a prestare la loro opera gratuitamente, come voi avete comandato – aggiunse con un furbo sogghigno – la stessa cosa non avviene per la pietra d’Istria e i marmi preziosi. Non c’è vostro ordine che li faccia uscire dalle cave già tagliati in blocchi e pronti per essere scolpiti.
– Avevo ordinato di prendere i marmi a Ravenna e a Fano.
– E’ stato fatto. Il porto di Classe è interrato da secoli e tutta la zona intorno è stata pian piano abbandonata, così che le chiese del luogo sono poco frequentate. La navata centrale della basilica di Sant’Apollinare è stata completamente spogliata dei marmi che conteneva. Bardiglio, nero Portoro e rosso Levanto, porfido e verde antico. Più di così, senza incorrere nelle ire del vescovo, non ci siamo arrischiati a portare via.
Ma voi non avete ancora visto gli ultimi disegni dell’Alberti, venite! Sono meravigliosi.
Mentre tutto intorno ferveva incessante il lavoro e risuonava il continuo martellio degli scalpellini, gli uomini si diressero verso un vicino tavolaccio. L’Alberti pose dei grossi frammenti di marmo agli angoli di un rotolo, che tendeva a riarrotolarsi, e svelò agli occhi di Sigismondo il disegno preparatorio di quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere l’aspetto finale del Tempio.
Sigismondo lo studiò attentamente. “Un potente richiamo alla romanità” pensò, un allacciarsi al mito e alla potenza degli avi attraverso le linee pulite e armoniose della costruzione. C’era una bellissima proporzione fra le arcate e la forma squadrata della facciata, un continuo richiamo all’aspetto del ponte di Tiberio e dell’Arco di Augusto. Quasi a formare un tratto d’unione fra i due vecchi monumenti.
Nei disegni sciorinati davanti a lui emergevano prepotenti i bassorilievi che celebravano la grandezza della sua famiglia. Fronde, allori, la sua iniziale intrecciata ovunque, in maniera metodica, a quella dell’amante; il continuo richiamo, nella rosa canina a quattro petali, al retaggio sempre dichiarato della discendenza della famiglia dei Malatesta da quella degli Scipioni di cui la stessa rosa stilizzata, era il simbolo.
– Bellissimi – disse Sigismondo accarezzando delicatamente con la mano guantata la pergamena – avete la mia approvazione.
Il consiglio di Matteo dè Pasti si era rivelato eccellente. Leon Battista Alberti era veramente l’architetto capace di dare forma alle sue ambizioni di mecenate e di Signore rinascimentale, alla pari dei Medici di Firenze.
Rimax invece se la rideva sotto i lunghi baffi. L’idea era troppo accattivante per essere accantonata e aveva visto Matteo così sicuro dell’approvazione del Signore, lavorare già ai bozzetti delle monete celebrative, con l’immagine di Sigismondo su un verso e quella del Tempio, così come era proposto sui disegni, sull’altro.
La consuetudine di quel tempo voleva che la munificenza del principe, cioè di colui che aveva finanziato l’opera, fosse resa manifesta attraverso le iniziali del suo nome incise un po’ dovunque. FE stava a significare Federico, Duca d’Urbino, e RO, Roberto Malatesta, Signore di Cesena. A rappresentare Sigismondo quindi non poteva che essere il monogramma SI. Però Agostino lo aveva pensato e realizzato come se le due lettere si abbracciassero, compenetrandosi. Poteva significare Sigismondo quanto Sigismondo e Isotta, rendendo in questa maniera palese un amore indissolubile, eterno. Che ognuno poi si intestardisse a trovare la risposta che preferiva. Rimax sapeva benissimo che l’arte ha tante spiegazioni quanti sono coloro che la giudicano. E a lui, l’idea di un amore che scavalca gli abissi del tempo, piaceva un sacco.
Davanti a Rimax c’era il punto focale di quattro chiese: Santa Innocenza e San Michelino in Foro emergevano dal mare di basse case alla sua destra, rivolte ad ovest. Alle sue spalle si ergeva la mole di San Giorgio Antico, rivolta a nord. Tutte le chiese sembravano voler voltare le spalle al nuovo tempio, quasi a voler ignorare quello che di lì a poco li avrebbe eclissati per la sua bellezza e che sarebbe stato indicato come il Tempio dell’eresia per i suoi contenuti esoterici e in apparenza così poco cristiani.
Anzi, per essere esatti queste dicerie già circolavano, diffuse, ad arte, dagli emissari del papato che non vedeva di buon occhio la prepotente salita alla ribalta di Sigismondo fra i potenti di quel tempo.
Doveva ammettere che i mugugni di quanti sostenevano che Sigismondo stesse cercando di realizzare un’opera empia, che poco aveva a che fare con la cristianità, trovava conferma all’interno delle cappelle.
Ad esempio le scene religiose mancavano totalmente, con l’eccezione del grande affresco in cui San Sigismondo benedice il principe riminese inginocchiato davanti a lui. Ma anche in quest’opera pittorica c’era chi vedeva nelle sembianze del santo i lineamenti dell’imperatore che aveva elevato al rango di Signore della città Sigismondo.
Gli stessi ornamenti delle cappelle poi, che in teoria si rifacevano alle virtù teologali erano il trionfo della voluttà, nei giochi di amorini e putti che poco avevano a che fare con gli affreschi sulla vita e sulle opere dei santi che affrescavano le altre chiese della città.
Per Rimax non era niente di nuovo. In tutte le epoche attraversate aveva constatato come l’arte fosse sempre, costantemente, un paio di passi avanti alla morale. E che ciò che appariva blasfemo, di lì a pochi anni avrebbe perso la sua patina di negatività per acquisire un solido valore storico. In quel momento però, e il gatto se ne rendeva pienamente conto, oltre a una lettura morale delle opere realizzate nel Tempio Malatestiano, c’era un’ulteriore ragione molto più venale a suffragare le critiche di Santa Madre Chiesa.
La condotta spregiudicata di Sigismondo, che aveva spesso cambiato schieramento politico, ora col papa ora con l’imperatore, gli aveva alienato parecchie amicizie.
La nomina a Vicario della Chiesa per i possedimenti romagnoli se da una parte gli dava piena potestà sulla Signoria dall’altra lo obbligava al pagamento di decime onerose che spesso si “dimenticava” di onorare. Anzi, era in mora di due o tre anni, e non ci si poteva meravigliare che il papa non vedesse la cosa con buon occhio. Probabile che fosse questo il motivo dell’astio del papa nei suoi confronti e non gli ornamenti del Tempio.
La storia poi ci racconta, e Rimax lo sapeva anche troppo bene, che l’atteggiamento di Sigismondo lo avrebbe portato alla sconfitta militare e politica e, in ultimo, a lasciare incompiuta l’opera alla quale Agostino stava lavorando. Sentendo la fine approssimarsi, ma non volendo rinunciare al sogno del Tempio, Sigismondo avrebbe versato nel Monte del Sestiere di San Polo, a Venezia, cinquemila fiorini d’oro, destinandoli alla Fabbrica di San Francesco e legando i suoi eredi al completamento della stessa.
Rimax giocherellò con la mezza dozzina di topi scolpiti nel marmo verde, abbandonati fra i disegni sul tavolo da lavoro di Agostino, pensando alle probabili mosse di Sigismondo. E alle future, possibili, alleanze se fosse stato costretto a mettersi in contrasto con papa.
Se fosse dipeso da lui la decisione sarebbe stata semplice. E maliziosa come voleva la sua natura felina. Il Papa voleva indietro i suoi soldi? Che aspettasse pure! Lui gli avrebbe spedito quei topi di marmo.
Eh, eh, gli avrebbe fatto vedere… i sorci verdi!
Molto bella ed interessante, bravi!
Grazie Pietro! 😉