“L’òv benedèt l’è bòn ènca dòp Pasqua”

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Pubblicato la prima volta il 28 Marzo 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “L’òv benedèt l’è bòn ènca dòp Pasqua”

L’uovo benedetto è buono anche dopo Pasqua, ovvero non c’è scadenza per un dono fatto con sincerità.
Uno dei diversi modi di dire che prende in prestito la festività pasquale per esprimere un aspetto morale. Ce n’era un altro, assai cinico e che piaceva al babbo: quando gli si ricordava che i suoi acciacchi dipendevano dall’avanzata età, ribatteva “arcurdèv c’a pasqua i va j’agnèl” (ricordatevi che a Pasqua muoiono gli agnelli… ovvero i più giovani). Frequente anche “nadèl sé sól e pasqua sì tèz”, natale col sole e pasqua col fuoco, seppur con i “battecchi”, a significare i “dispetti” della meteorologia.

Ma anche il modo di dire sull’uovo benedetto aveva un doppio senso: era il ringraziamento sentito verso chi, seppur in ritardo, rendeva un proprio omaggio ma, non dimeno, il commento sprezzante e malevolo che tagliava di netto ogni tentativo di giustificazione verso chi dimenticava il proprio “dovere” e che non poteva cavarsela con un “scusa, mi son dimenticato… scusa, in quel momento non potevo” perché, volendo, avrebbe potuto e dovuto rimediare anche in differita… dato che, appunto, “l’uovo benedetto è buono anche passata la Pasqua”.

Il lunedì, giorno di Pasquetta, si usciva. Non a pranzo nei ristoranti, nemmeno nei finti agriturismi che oggi vantano i “prodotti del nostro orto”, ma ciambella, “òvi duri”, piada e salame erano la base – arricchita con porzioni di lasagne, coniglio e/o pollo, vino – del “somar lungo”, la gita che, a piedi ci portava alle “Grazie” sul colle di Covignano per un pic nic sull’erba.
Lì feci il mio primo incontro con un embrione di Luna Park: la donna barbuta, i mangiafuoco, lo zucchero filato, il “calcinculo” che, commentava la mamma “snà a véda um vèin da butè fóra”. C’incamminavamo a piedi dalla via Cairoli facendo tratti di strada in comune con altre famiglie che, con le sporte piene, puntavano alla stessa meta, mentre i “pió sburùn” come diceva la Elsa, ci precedevano in carrozza, di quelle che solitamente stazionavano alla Stazione o in piazza Cavour e che, per l’occasione, praticavano prezzi più bassi ma comunque per noi inaccessibili. E si ritornava quando l’aria si faceva fredda, le borse vuote, tra le braccia quei fiori gialli “i scudlèin” raccolti nei campi.

Oggi persino i simboli della Pasqua stanno sparendo: non ci sono più o sono rarissimi i cartoncini augurali, quelli con l’immagine dei pulcini, dei pastorelli e della uova colorate. Persino in TV, era il parere della Elsa, “st’an i n’ha fat téint casèin sal culòmbi o gli òvi ad ciocolata” e i parenti e famigliari che solitamente si ritrovano a Natale, dice sempre la Elsa “ognùn e’ và per i caz su”.

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