Pubblicato la prima volta il 18 Luglio 2018 @ 00:00
“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “L’a sé messa tóta in ghingheri!”
Si è vestita (o almeno ha pensato di farlo) tutta elegante… in realtà veniva riferito a chi ostentava un abbigliamento eccessivo…era riferito a chi si “preparava” per un appuntamento importante, specialmente, amoroso od al periodo in cui per le feste c’era la ricercatezza del capo nuovo, dei colori sgargianti, del trucco accentuato con obbligo di parrucchiera. Non a caso chi aveva occasione di notare questa preparazione interpellava il soggetto con un “scàp?”, ovvero: “ti prepari ad uscire?
Era una forma di esibizionismo, certo soprattutto da parte delle donne, facilmente apostrofate con un “l’è ambiziósa!”.. ma non mancava una certa dose di rispetto verso “gli altri”…. tanto che spesso (è capitato anche a me) si rinunciava ad un invito a nozze perché “a n’ho gnìnt da mètme” niente di adatto a quell’occasione importante e sfigurare significava offuscare la giornata agli sposi. Allora c’erano dei canoni.. anche per i poveri, le donne, pur rare, che portavano i pantaloni solo e rigorosamente con scarpe basse…il tacco sarebbe apparso estremamente volgare, quel tacco che, invece, doveva accompagnare un abito elegante.. ed un uomo non avrebbe mai calzato scarpe sportive (“da tennis” si diceva allora) con un abito scuro.. anzi diffidenza anche verso le camicie a manica corta…mentre i jeans erano indumento da lavoro. In quegli anni le stagioni erano segnate dagli odori, anche in città. Non c’era smog, poche le auto in circolazione. In primavera gli odori si aspiravano in diretta, nelle strade. Da quello di soffritto che si spandeva dalle finestre aperte a quello del mastice del falegname che lavorava sull’uscio della bottega. I bar sapevano di caffè tostato e tamarindo.
Già molto si è detto sui “forni” (oggi panifici) che venivano facilmente individuati dalla scia lasciata dalla cottura del pane e della ciambella. In via Cairoli arrivava l’odore inconfondibile del pesce della vecchia pescheria e della vicina “pesa”. E nei giardini (villa Giulianelli), negli spazi verdi attorno la Chiesa di Sant’Agostino e nell’Arena del Cinema Italia, c’erano rose, glicini, belle di notte… ovvero segnali inequivocabili della primavera. Ma c’era un altro indicatore: l’abito. La primavera, soprattutto per le donne, accentuava la sensualità liberando i corpi perlopiù carnosi (era il tempo delle maggiorate fisiche) infagottati d’inverno, nei cappotti con le maniche alla raglan o a kimono. Il cappotto andava smesso prima possibile anche perché era il capo più costoso, quello che doveva durare più a lungo. Veniva confezionato con stoffe di pregio (loden, cammello, doppio panno). Anche i bottoni (pochi e grandi) impreziosivano. Per trovare i migliori si era disposte a lunghe file da Benvenuti, la merceria più fornita di Rimini, nella piazzetta della Poveracce. Dovendo risparmiare si optava per i bottoni ricoperti con i ritagli della stoffa, nel botteghino in fondo la via Giordano Bruno dove si rammendavano anche le calze di nailon “smagliate”. E la fisicità era contrassegnata anche dagli odori della pelle. Non si usavano deodoranti e i capelli sapevano dell’aceto usato nel risciacquo per aumentarne la lucentezza. Il sudore veniva asciugato col talco. Le gonne (al sutèni strèti) ) e gli abiti fasciavano i corpi alleggeriti da generose scollature quadrate che delimitavano la pelle abbronzata dal sole.
Non a caso ci sarà poi la reazione delle gonne ampliate dai “sottogonna” dove il gonfiore veniva accentuato dalle cinture alte e strettissime in vita mentre faranno la loro comparsi gli abiti “a sacco” segnati al seno (gli spalloni). La lunghezza lasciava liberi i polpacci che, d’inverno, erano coperti dalle calze con la “riga” verticale. Il seno era evidenziato dalle cuciture laterali, le pinces (al pènz), oggi scomparse dai modelli femminili. E s’usava un’espressione sicuramente ben presente nel mondo felliniano: “A scap in bèla vita” ovvero “esco, all’aperto, senza giacche, soprabiti”. Al massimo una “rebecca” (maglia allacciata con bottoni simile ad un cardigan ma di dimensioni più ridotte). Alternativa alla gonna stretta era quella a “libro” dove un lembo sormontava l’altro con il gioco del “vedo e non vedo” della coscia. Il colore dei bottoni era di un ricercato contrasto con quello della gonna. Chi poteva contare sul “vitino” usava la sottana “ a ruota” o alla godè. Vestito di cordonnet nero per la sera. Al cappotto seguiva “ el spulvrèin”, lo spolverino oggi più noto come soprabito, spesso con la martingala (cinturina di stoffa posta a tergo) o la rendigote a tre quarti.
Epocali anche i generi delle stoffe: fustagno, jersey, panno lenci, bouclé, raso, taffettà e, ancor di più i colori: carta da zucchero (azzurro), pastèl (marroncino chiaro) crème (giallino), bló aviazión, grigio fumo di londra. Oggi, soprattutto i giovani, vanno sul casual… anche finto.. quello degli abiti lisi, scoloriti, stracciati…ma rigorosamente “firmati”… che facevano dire a mia mamma “i s’è mès tót straz”.