Pubblicato la prima volta il 11 Marzo 2016 @ 00:00
Il genere di pulizia che faceva Barbachiara, che preferiva nascondere anziché eliminare lo sporco. Veniva riferito a chiunque avesse poca dimestichezza con scopa e/o sapon e fosse dedito a pulizie sommarie, giusto per ingannare le apparenze. Dunque un modo di dire cui si può ricorrere sia in senso fisico che metaforico.
Al centro, la pulizia. Un tema importante negli anni ’50 quando si usciva dal rigore della guerra, dei rifugi, degli sfollamenti, da un tempo in cui salvare la pelle era più importante che lavarla ma, pur migliorate le condizioni di vita, non si poteva dire ci fossero le “comodità”. I miei primi anni, come più volte detto (e la mia famiglia non era la sola in quelle condizioni) abitavo in una unica stanza, niente bagno, né vasca né bidet. Un unico lavandino (la scafa) che serviva sia per gli usi di cucina sia per l’igiene, compreso il lavaggio dei capelli. Ciò non toglie che “lavèss” fosse un’esigenza prioritaria, inculcata fin da piccoli “lavèv burdèl, cambièv al mudandi che su vèin mèl pèr la strèda in vi tò gnènca só” (lavatevi, bambini, cambiate le mutande che le persone sporche non vengono soccorse nemmeno in caso di malore).
Mi piace rimarcare il tema della pulizia perché c’era una bella parte della comunità convinta che quelle case pregne della puzza di cibo cotto, per noi odore che ci anticipava il gusto, non scontato, di pranzo e cena, fossero sporche come i loro occupanti. Certo non c’era acqua calda corrente e bisognava ricorrere a pentole piene d’acqua, sempre presenti sul piano della stufa d’inverno perché d’estate era d’obbligo lavarsi con l’acqua fredda. Il bagno, una volta la settimana, nel mastello di zinco o di legno davanti lo sportello aperto che scaldava davanti mentre ti ghiacciavi nella parte opposta… col rischio costante di alimentare quel catarro che, perenne, si coagulava nel naso (i ben noti murghènt) e depositava sui bronchi. Mentre i lavaggi quotidiani avvenivano nel lavandino, nudi, in piedi. La mamma raschiava con la “scùpèta” le gambe di mio fratello, più sporche di quelle delle femmine, perché i maschi giocavano al pallone nei campi colmi di fango, si arrampicavano sugli alberi per rimediare i rami che sarebbero diventati gli archetti delle fionde. E la mattina “vèin i què che a tò da lavè e’ mus” con quella manata di sapone, lo stesso usato per il bucato, che passava su tutto il viso, bruciava gli occhi, scorticava collo ed orecchie. Ricordo le vane proteste di Romeo: “Ma mamma, mi hai già lavato ieri!”. Per i capelli era già arrivato lo shampoo, quello in polvere, nella bustina (Palmolive), poi quello liquido nella bottiglietta fatta a rochetto (Rilux), risciacquati con l’aceto per prevenzione antipidocchi, ospiti quasi stabili delle teste soprattutto in età scolare e non solo… se è vero che il tipo che si presentava con la chioma lunga, opacizzata da scarsi lavaggi veniva bollato con “l’è un bdùciòs”. I denti, punto dolente, ripassati col bicarbonato o la salvia, secondo un’usanza popolare cui pochi ricorrevano, tantomeno si poteva pensare al controllo del dentista che entrava in campo solo per l’estrazione quando proprio “an resistéva pió”.. il che spiega la condizione disastrata che ben presto si stampava sui sorrisi. Il catino, invece, serviva per i lavaggi parziali dai piedi alla “passerina” della bambina prima, delle donne poi.
Ho già avuto occasione di dire che ricordare il passato mi ha reso più consapevole sull’origine di alcuni tratti della mia personalità.
A proposito della pulizia, ad esempio, abbiamo appreso già nell’infanzia che non ci si cambia d’abito, tanto meno di biancheria, se prima non ci si lava. E noi femmine, prime che ce lo consigliasse il ginecologo o l’igienista, abbiamo sviluppato l’esigenza che le parti intime bisognasse lavarle almeno due volte al giorno, “si nà l’a va da mèl” come diceva la mamma.
E che orrore allora, come oggi, cercare di “coprire” gli effetti di una scarsa pulizia con profumi e/o deodoranti! Soprattutto in quegli anni quando arrivarono sul mercato profumi (si fa per dire) a basso costo come Sogno, il Pino Silvestre, la violetta di Parma, la lavanda Coldinava, “impèsted”, a detta della Elsa, perché si mescolavano con gli “odori” emanati dal corpo; a noi bambini interessavano di più le boccette vuote, dalle forme strane, coi tappi colorati. Molto meglio, risorse permettendo, scambiarsi per regalo una “buona” saponetta con la quale, allora ci si lavava tutto il corpo.
Non minore la cura della casa, considerata l’assenza totale di elettrodomestici e l’uso fondamentale della scopa di saggina per non dire de “sfunéz” legato alla tradizione di cucinare quotidianamente con utilizzo di tegami, taglieri, sughi che schizzavano, frittate che ungevano, fiamme che annerivano. Si puliva tutto, sempre ricorrendo essenzialmente all’olio di gomito. “Spranghina” per strofinate il fondo esterno delle pentole, carta smerigliata per lucidare la piana della stufa, ripassandola col metalcrom, strofinacci unti fatti bollire coi mozziconi di sapone, vetri passati con palle di carta di giornale imbevute di “spirito”, aceto passato sui mattoni rossi del pavimenti perché “è pulés e disinfèta”.