Parlate riminesi #22

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Foto © Paolo Miccoli - Archivio Storico Chiamami Città

Pubblicato la prima volta il 5 Marzo 2017 @ 20:00

Foto © Paolo Miccoli – Archivio Storico Chiamami Città

Vorrei riprendere e ampliare la questione della mutazione subita dalla ‘ò’ breve in alcune parlate. Ricordo, innanzi tutto, che tale mutazione riguarda solo la ‘o’ aperta e breve. La ‘ò’ lunga resta invece invariata in tutte le parlate, tant’è che parole come ‘bòta’ «botta», ‘còt’ «cotto», ‘còl’ «collo» e ‘òc’’ «occhio» si pronunciano sempre nello stesso modo. E anche la ‘ó’ breve, essendo chiusa, resta invariata, per cui parole come ‘brótt’ «brutto» e ‘tótt’ «tutto» sono uguali in tutte le parlate. Come dicevo, la vocale che ha subito una mutazione è solo la ‘ò’ breve, che si trova ad esempio nelle parole ‘ròss’ «rosso», ‘ròtt’ «rotto», ‘bòtta’ «botte», ‘pòzz’ «pozzo», ‘còpp’ «coppo», ‘biònnd’ «biondo», ‘bšòggn’ «bisogno», ‘agòsst’ «agosto» eccetera.

Qual è l’effetto di tale mutazione? Abbiamo visto che la vocale è rimasta aperta e breve, ma è cambiato il suo “timbro”, per cui in alcune parlate essa è arrivata a confondersi con la ‘è’ breve o con la ‘a’ breve. Ad esempio la voce corrispondente a «rotto» in alcune parlate non è ‘ròtt’, ma ‘rètt’ o ‘ràtt’, o varianti simili a queste, che in precedenza ho scritto ‘rëtt’ e ‘rätt’.

Tempo fa ho detto che la soluzione grafica che sto usando in queste pagine per esprimere la brevità delle vocali accentate non è del tutto soddisfacente. Infatti ho deciso di raddoppiare la consonante che viene dopo la vocale accentata breve, ma questo sistema non è utile quando la vocale breve non è seguita da alcuna consonante, come accade quando essa si trova alla fine della parola o davanti a un’altra vocale. Ebbene, la mutazione della ‘ò’ breve è una di quelle questioni in cui emerge il limite di questa grafia. Consideriamo ad esempio le parole corrispondenti a «foglio» e «moglie». Nella prima il dialetto riminese ha una ‘ò’ lunga, e la scriviamo ‘fòi’; nella seconda c’è invece una ‘ò’ breve, ma noi non possiamo fare altro che scriverla ‘mòi’. Osservando ciò che abbiamo scritto, cioè ‘fòi’ e ‘mòi’, può sembrare che le due parole abbiano la stessa terminazione, ma c’è invece una differenza, che emerge chiaramente nelle parlate in cui si ha mutazione della ‘ò’ breve; in queste infatti ‘fòi’ resta immutata, mentre ‘mòi’ diventa ‘mèi’, ‘mëi’, ‘mài’ o ‘mäi’. (Peraltro anche qui la grafia si rivela inadeguata, perché dovremmo esplicitare in qualche modo che per dire «moglie» bisogna pronunciare ‘mài’ con la ‘à’ breve, altrimenti si dice «mai», come in italiano.)

Nella puntata precedente ho detto che in alcune parlate questa mutazione ha prodotto un risultato stabile. Ad esempio al posto di ‘ò’ breve si può trovare sistematicamente una vocale prossima ad ‘è’, per cui al posto di ‘ròss’, ‘ròtt’, ‘bòtta’, ‘pòzz’, ‘còpp’, ‘biònnd’, ‘bšòggn’, ‘agòsst’, ‘mòi’ si trova stabilmente ‘rèss’, azithromycin bei chlamydien – test oder rezept online | ohnerezeptfreikauf ‘rètt’, ‘bètta’, ‘pèzz’, ‘chèpp’, ‘biènnd’, ‘bšèggn’, ‘aghèsst’, ‘mèi’. E in altre parlate al posto di ‘ò’ breve si può trovare sistematicamente una vocale prossima ad ‘a’ breve: ‘ràss’, ‘ràtt’, ‘bàtta’, ‘pàzz’, ‘càpp’, ‘biànnd’, ‘bšàggn’, ‘agàsst’, ‘mài’.

Quando si hanno questi sviluppi stabili e sistematici non è difficile adottare una grafia adatta alla mutazione. Perché al posto di ‘ò’ breve possiamo scrivere sistematicamente ‘è’ o sistematicamente ‘à’. Aggiungo, comunque, che sono rare le parlate in cui l’esito della trasformazione di ‘ò’ è proprio una ‘è’ o proprio una ‘a’. Per rendercene conto possiamo fare un confronto fra alcune parole che hanno una ‘è’ breve originaria (che resta immutata in tutte le parlate) e le parole in cui la presunta ‘è’ breve è il risultato della mutazione di ‘ò’. Prendiamo ad esempio le parole corrispondenti a «meglio» e «tenda», che in tutte le parlate sono ‘mèi’ (con ‘è’ breve) e ‘tènnda’. Confrontiamo quindi queste parole con quelle corrispondenti a «moglie» e «rotonda», che originariamente erano ‘mòi’ (con ‘ò’ breve) e ‘tònnda’, ma che poi, a causa della mutazione della ‘ò’, in alcune parlate sono arrivate a confondersi con ‘mèi’ e ‘tènnda’. Ebbene, fra coloro che sono convinti di pronunciare una ‘è’ breve al posto di ‘ò’ breve ci sono alcuni che ancora sentono la differenza fra le parole corrispondenti a «meglio» e «moglie». Per verificarlo si può provare a pronunciare la frase corrispondente a «è meglio mia moglie»: se uno dice ‘l è mèi la mi mèi’, con le due ricorrenze di ‘mèi’ uguali, allora si può dire che la ‘ò’ breve è arrivata a coincidere stabilmente con ‘è’. Ma se invece si sente ancora una differenza fra le due parole, dobbiamo dire che la ‘ò’ non è arrivata esattamente fino ad ‘è’, ma si è “fermata” a una vocale prossima, che possiamo scrivere ‘ë’. Dunque scriveremo ‘l è mèi la mi mëi’.

Un caso analogo si ottiene confrontando la parola corrispondente a «maestro» con quella corrispondente a «mostro». Qui c’è una ulteriore complicazione, perché «maestro» ha dato virtualmente ‘mèsstr’ in tutte le parlate, ma il nesso consonantico ‘str’ non è tollerato in posizione finale, e sappiamo che nell’area riminese ci sono parlate che risolvono questo problema aggiungendo una ‘e’ finale non accentata e altre che lo risolvono aggiungendo una ‘i’. Dunque «maestro» è ‘mèsstre’ e in alcune parlate e ‘mèsstri’ in altre, ma la vocale accentata è comunque la ‘è’ breve. Invece nella parola corrispondente a «mostro» in origine c’era una ‘ò’ breve, per cui si aveva ‘mòsstre’ o ‘mòsstri’, ma poi la ‘ò’ in alcune parlate è mutata. Così nelle parlate in cui la mutazione di ‘ò’ tende a confondersi con ‘è’ si trova ‘mèsstre’ o ‘mèsstri’ anche per «mostro». Eppure c’è chi sente ancora la differenza fra «maestro» e «mostro», e allora sarà opportuno scrivere ‘mèsstre/mèsstri’ per «maestro» e ‘mësstre/mësstri’ per «mostro».

Ciò che ho detto fin qui vale per le parlate in cui la mutazione di ‘ò’ breve ha prodotto un risultato stabile, ma nella puntata precedente ho detto che ci sono anche parlate in cui il risultato della mutazione di ‘ò’ è una vocale che è rimasta variabile. Coloro che esibiscono queste parlate possono dire ‘ròss’ per «rosso», ‘rätt’ per «rotto», ‘bètta’ per «botte», ‘mëi’ per «moglie» eccetera. Non solo ma, se ripetono più volte la parola corrispondente a «rosso», una volta possono dire ‘ròss’ e la volta dopo ‘räss’, e poi magari ‘rëss’ eccetera, talvolta anche a distanza di pochi minuti. Come dicevo, una delle parlate in cui la variabilità di questa vocale risulta più ampia è quella del centro storico di Rimini.

Ora, se un certo parlante dice ‘ròss’, ‘rätt’, ‘bètta’ e ‘mëi’, come scrivere questa vocale? Certo, potremmo decidere di scrivere proprio così come ho fatto ora, ma questa soluzione presenta dei gravi limiti. Innanzi tutto si può trovare un altro parlante, che parla lo stesso dialetto (perché è coetaneo, è cresciuto nello stesso quartiere eccetera), e che tuttavia dice ‘rèss’, ‘rëtt’, ‘bòtta’ e ‘mäi’. Non solo, ma ho detto che uno stesso parlante può pronunciare la stessa parola in più modi diversi. Dunque se noi decidiamo di esprimere, di volta in volta, in ogni singolo caso, tutta varietà dei timbri che può assumere questa vocale, produciamo per ogni parola un gran numero di varianti, che sono destinate a combinarsi in un’infinità di modi nei testi, producendo un caos grafico.

Non solo, ma il tentativo di esprimere di volta in volta il timbro esatto della vocale è fuorviante ed è dettato dal condizionamento prodotto dall’italiano. In italiano, infatti, ogni vocale ha un timbro ben definito, perché è appunto il timbro a definire le diverse vocali. Ma ormai abbiamo capito che i dialetti romagnoli sono molto diversi dall’italiano, e qui abbiamo una vocale che è definita dalla brevità e dall’apertura, non da un timbro specifico. Nelle parlate in cui la nostra vocale è variabile il timbro è un dettaglio accidentale, non essenziale, che non è necessario esplicitare nella grafia.

Siccome le lettere dell’alfabeto latino sono associate a timbri specifici, la soluzione più rigorosa in questo caso sarebbe quella di introdurre una nuova lettera, per esprimere questa vocale particolare dal timbro variabile. Noi però non vogliamo complicarci troppo la vita, e possiamo cercare di utilizzare comunque l’alfabeto latino. Ma per farlo doppiamo compiere un’astrazione, scegliendo, fra tutti i timbri possibili di quella vocale, uno che ci sembri abbastanza “rappresentativo”, se non altro per la frequenza. Ad esempio se ci sembra che quella vocale venga pronunciata spesso con la coloritura della ‘a’, possiamo decidere di scriverla sempre ‘ä’, anche se ci capita non di rado di pronunciarla diversamente (per lo meno in alcune parole). In tal caso scriveremo stabilmente ‘räss’, ‘rätt’, ‘bätta’, ‘päzz’, ‘cäpp’, ‘biännd’, ‘bšäggn’, ‘agässt’, ‘mässtre/mässtri’, ‘mäi’ eccetera.

Davide Pioggia

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