Pubblicato la prima volta il 26 Ottobre 2016 @ 00:00
Ci siamo. Il calo di temperatura avvenuto in una notte, rispolvera, soprattutto nelle persone più attempate, questo antico modo di dire: attenzione ai primi freddi, sono quelli che portano in anticipo malanni propri dell’inverno.
Per quelli/e della mia generazione è facile andare a quegli anni ’50, quando l’inverno spegneva il sole ed accendeva le stufe e partiva una vera e propria lotta per combattere il freddo e le malattie. E in quelle stanze, dove il calore della stufa a legna non arrivava, si doveva supplire coi rimedi più volte ricordati: “il prete”, “la suora” ovvero quei catafalchi di legno che, sotto le lenzuola, grazie alla brace posizionata sulla parte piana, riscaldavano un letto altrimenti gelido ed umido.
Ma mica tutti ne possedevano, gli altri, quindi, erano costretti a ricorrere a mezzi “alternativi” persino più economici.
Io stessa ho sperimentato il mattone, riscaldato nel forno della stufa, avvolto in panno, messo in fondo al letto. Peccato che appena perso il calore raffreddasse ancor di più i piedi. E mancando la borsa dell’acqua calda, un accessorio che, in quanto tale, era considerato spesa superflua in molte case, veniva sostituita da una bottiglia, riempita di acqua calda, di quelle con la chiusura con la leva di metallo e la guarnizione di gomma. Ma anche in quel caso c’erano delle controindicazioni, perché non erano rare le volte in cui la bottiglia si apriva…
Infine, non mancavano i cappotti buttati sopra il letto e tanto era il freddo che, sotto le coperte, si stava rigidi come lombardoni per cui quei cappotti, al mattino, erano esattamente nella posizione in cui erano stati collocati. Verso i bambini, già in quegli anni, pur esenti da vizi, andava cambiando la sensibilità. Si veniva da un tempo in cui, come ci avevano narrato, qualche bambino di famiglia numerosa s’era perso nel tino dove fermentava il mosto o era stato tragicamente mangiato dalla scrofa e, racconta la mamma, “i sù is n’èra incòrt quand i l’ha ciamè in tì suldè”. Vero o no, era certo che in quel tempo i figli nascevano con una sorta di rassegnazione e la selezione avveniva in via naturale. Fame e freddo erano considerati due elementi comunque inevitabili, tanto che i modi di dire allora: “mà, ho frèd”, risposta: “ten e’ cùl strèt!”… “ma ho fèma”, risposta: “maintè na mèna!”.
Personalmente ricordo invece una maggiore attenzione, pur essendo ancora lontana la vaccinazione antinfluenzale e di là da venire l’assistenza sanitaria garantita. A proposito di vaccinazioni: era obbligatoria quella contro il vaiolo, che si faceva nel braccio dove molti di noi conservano ancora i segni, i due “bollini” che io ho visibili anche nel braccio sinistro dove si ripeteva il richiamo… e la vaccinazione antipolio, quella di Sabin praticata tramite la zolletta di zucchero. Ma al di là delle malattie che si potevano contrarre, allora si diceva “prendere”: “l’ha ciàp la tosa cativa… e’ murbél… gl’urciùn… la scalatèina”
Quella che arrivava subito dopo i primi giorni di nascita, era la bronchite… probabilmente proprio a causa del freddo degli ambienti. Ci sono commenti impressi nella mente come un’eco infinita: “tcè pìna ad catàr… spùda, spùda…” e quei “murganti” perennemente colanti dal naso, rappresi dal freddo e che variavano colore dal giallo al verde a seconda della densità… mentre “si tirava su col naso” e, quando non risalivano nelle fosse nasali si spazzavano via con la manica della maglia.
A proposito delle malattie infettive “quèli di burdèl”, si nota una differenza abissale tra il decorso attuale e quello dei miei tempi. Oggi a malapena si nota il bambino con la malattia, peraltro a forte contagio… i tempi di guarigione sono piuttosto brevi ed al “colpito” si consente una vita del tutto normale. Allora i contagiati dal morbillo venivano messi in quarantena, al buio, terrorizzati dalla minaccia “guai grattarsi”… chè, in caso, di trasgressione ci poteva capitare di tutto… a partire da “us dvènta zég”.
La tosse asinina, così chiamata perché gli attacchi erano spesso accompagnati da rantoli e sibili simili al raglio, era devastante con singulti e, spesso, vomito; gli “orecchioni”, poi, si trattavano con l’ittiolo, quella pomata spessa, nera e puzzolente che veniva applicata dietro le orecchie e ricoperta con un fazzoletto… mentre ci tenevano lontano dai maschi adulti di casa perché “slà s’ataca da bàs… uns pó pió fè i fiól….”. Le difese maggiori, allora, avvenivano tramite l’abbigliamento. Oggi sì fa tanto parlare del “vestirsi a cipolla” come di una scoperta originale. Ma i bambini della mia generazione avevano più strati “ad straz”, come diceva ironicamente la mamma, di un vecchio tronco d’albero. Già le maglie “da sotto” iniziavano con la canottiera di lana, poi la maglia a mezze maniche coperta, con l’arrivo del freddo più intenso, da quella a maniche lunghe, realizzata con la lana ricavata da vecchie maglie (al maj bustézi) e, su tutto, le maglie “da sopra”, rafforzate da una rebecca. Più mutande di fustagno a forma di boxer, sottoveste di lana lavorato ai ferri, calzini corti doppiati dai calzettoni. Rimanevano scoperte, per un tratto, le gambe che prendevano un colore violaceo che faceva dire “us véd che tè frèd, t’è al gambi murèli”.
Sarà per quelle abitudini originarie, che oggi non sopporto quelli che tengono i termosifoni al massimo per stare in casa in maniche corte o canottiera. Preferisco una maglia in più al calore eccessivo ed innaturale che, come diceva la Elsa “e’ fa vnì e’ mèl ad testa e e’ rusghìn tlà gola”!