Niki Pagliarani, tra ironia e modernità

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Nicola "Niki" Pagliarani, fotografato da Amedeo Montemaggi

Pubblicato la prima volta il 28 Luglio 2020 @ 18:18

Cinquant’anni fa il Comune di Rimini ebbe una svolta quasi epocale: il sindaco storico Walter Ceccaroni, che aveva guidato la città dal 1948 (con qualche commissariamento “politico” come intermezzo), lasciava la carica per diventare assessore regionale.

Al suo posto il Partito Comunista scelse Nicola Pagliarani, chiamato dagli amici “Niki” e da me “onorevole”, non solo per il suo passato di deputato ma per la sua indubbia autorevolezza.

Come ha notato Paolo Zaghini, tanto si è discusso e scritto su Ceccaroni, molto meno su Pagliarani. Ho avuto la fortuna di colloquiare con lui assiduamente negli ultimi vent’anni della sua vita (la mia socia Elisabetta, per la quale Niki nutriva un affetto filiale, se avesse avuto un maschio lo avrebbe chiamato Nicola) e non potrò mai dimenticare la sua fine ironia, con la quale mescolava, spesso in dialetto, concetti filosofici e fatti reali.

Mi ha raccontato quasi tutto della sua vita e, come spesso succede quando si sente avvicinarsi la fine dell’esistenza, senza remore anche su aspetti meno noti o anche compromettenti: la sua famiglia socialista, l’adolescenza nel fascismo, la vita universitaria, l’esperienza bellica, in particolare come ufficiale a Creta, le terribili condizioni dell’internamento in Germania (ora Polonia) al freddo, con cibo scarsissimo e condizioni igieniche devastanti; mi confidò, cosa che aveva fatto rarissimamente, come ne fosse uscito e sempre con il sorriso anche quando parlava degli episodi più bui: “Tanto ho 90 anni, non mi metteranno più in galera!”

La stagione d’oro era stata per lui il secondo dopoguerra: la sua figura all’interno del partito era notevole e fu egli stesso a imporre a Cesare Bianchini nel 1948 di cessare il proprio incarico di sindaco e di passarlo a Ceccaroni: atto motivato, come ormai è noto a tutti e come mi aveva confidato, dagli interessi personali di Bianchini che il partito, e in particolare Ilario Tabarri, il duro e puro comandante dell’8ª Brigata Garibaldi, non poteva assolutamente accettare.

Pagliarani in questo periodo vedeva sempre come suo punto di riferimento Palmiro Togliatti: non solo perché lo giudicava abile ma anche perché era riuscito ad attraversare lo stalinismo e aveva saputo conservare una certa autonomia da Mosca. Nello stesso tempo apprezzava anche le sue doti di politico realista e concreto, teso ad aumentare il consenso ma senza facili scorciatoie: raccontava spesso sorridendo della reazione di Togliatti dopo l’attentato, che aveva subito calmato gli ardori in chi vedeva giunta l’ora “X” della rivoluzione.

Rivendicava con orgoglio la sua opera di ricostruzione di Rimini negli anni Cinquanta: lui, laureato in agronomia, aveva capito che il futuro non era più nell’agricoltura ma nel turismo e mi raccontò di tanti viaggi con Ceccaroni nelle campagne per convincere i braccianti ad abbandonare la loro difficile vita e di venire a Rimini per iniziare attività: comportamento certo poco marxiano ma molto realista, e il partito guadagnò consensi anziché perderli.

Non sopportava la parola “riminizzazione”. Mi diceva: “Facile dirlo adesso: bisognava essere lì, con la città completamente distrutta! Dovevamo rimetterla in piedi da soli e senza aiuti. E ci abbiamo provato. Forse il risultato non è stato il migliore, ma c’è stato!”.

Negli anni sessanta divenne deputato e con Veniero Accreman promosse l’istituzione della Corte di Assise a Rimini, traguardo ottenuto solo dopo la cessazione da deputato; in Parlamento era però il turismo che lo attraeva, spesso quello sociale, auspicando pure la smilitarizzazione dell’aeroporto per favorirne l’uso civile. Divenne amico del compagno di partito Walter Audisio ed ebbe l’ardire di domandargli come avvenne veramente la morte di Mussolini. Il silenzio del “colonnello Valerio” e la richiesta di non porgli più la questione gli fecero capire che la verità non sarebbe mai emersa.

Divenuto sindaco, ereditò da Ceccaroni il “Piano del Nuovo Centro” di De Carlo: non lo amava, come del resto molti del suo stesso partito, ne fece una difesa d’ufficio ma non si stracciò le vesti quando si decise di abbandonarlo. Era troppo lontano dalla sua mentalità e dalla sua cultura, come mi disse, distruggere borghi storici e costruire una monorotaia a 5 metri di altezza sulle mura malatestiane.

L’inclinazione a pensare alle fasce più deboli della cittadinanza si manifestò nella realizzazione dei P.E.E.P., per garantire alloggi a basso prezzo alle categorie meno fortunate.

Sicuramente il suo apporto è stato determinante per la realizzazione dei grandi parchi riminesi, che vedeva peraltro in connubio con l’edilizia popolare: era una sua idea, da grande visionario per l’epoca, preservare gli alvei fluviali riminesi per trasformarli in zone ricreative per la cittadinanza. Se quindi ora possiamo passeggiare lungo il parco cosiddetto “Marecchia” lo dobbiamo a lui che così lo trasformò da selva impraticabile quale era.

Il suo stile era “americano”: stava con la gente, chiacchierava e sorrideva, ma soprattutto ironizzava abilmente e questa è una caratteristica sempre amata; del resto era anche una fine penna: scriveva molto bene, era spesso sarcastico con gli avversari.

Terminata l’esperienza di amministratore rimase quella politica: era ancorato all’idea del comunismo che, mi diceva, “deve essere visto come una stella polare e non come realizzazione pratica: purtroppo però deve affrontare due grandi nemici, l’egoismo umano (e cos’è la capitalistica mano invisibile di Adam Smith se non l’egoismo?) e la paura della morte innata nell’uomo, su cui hanno prosperato le religioni”.

Perciò restò fedele a un suo amico di sempre, Armando Cossutta, che aveva conosciuto nel 1960 come responsabile del partito per gli enti locali e con cui aveva stabilità una fortissima intesa umana.

Ma a Niki piaceva conversare di tutto, stavamo ore a dialogare; quando parlava di mio padre, con il quale, nonostante la divergenze di idee, aveva un’amicizia fortissima, diceva: “È l’unico che ha scritto come sono andate veramente le cose, io posso dirlo perché le ho vissute”. Come suo lascito mi regalò due poemi goliardici, per ricordarmi di vivere la vita come divertimento.

Sono trascorsi dieci anni dal triste giorno della sua morte e mi associo all’idea di Paolo Zaghini che Pagliarani meriti l’intitolazione di una via: aveva un grandissimo rispetto per chi gli era stato avversario nelle idee, perché per lui era nelle idee che ci si doveva confrontare, senza personalismi. Ed è per questo che, per chi l’ha conosciuto da vicino, il ricordo di Niki è dolce e affettuoso.

Andrea Montemaggi

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