Pubblicato la prima volta il 6 Agosto 2018 @ 09:50
e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri)
Quante sono le tombe che le chiese di Rimini ancora conservano? Qui vogliamo parlare delle tre uniche tombe a muro che ancora resistono al trascorrere dei secoli: quella di Isotta degli Atti, terza moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesta all’interno del Tempio Malatestiano, quella di Raffaele III Brancaleoni nella chiesa di Santa Maria dei Servi, e quella di Giovanni Battista Paci, inserita nella facciata della chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino).
Dobbiamo pensare che le chiese di Rimini, per tutto il Medioevo e il Rinascimento, erano un’infinita teoria di tombe gentilizie, a gara tra loro per la magnificenza e l’eleganza dei decori. Gli stemmi di famiglia facevano bella mostra di sé, oltre che sui sepolcri, sugli altari delle varie cappelle, a testimoniare la potenza o la ricchezza della famiglia che ne aveva il patronato, e che quindi era tenuta a dotare la cappella di tutti gli arredi sacri necessari. Lo scarso rispetto per le memorie passate si ebbe già Sigismondo Pandolfo Malatesta che non ebbe problemi a servirsi delle lapidi del vicino cimitero di San Francesco per utilizzarle nella costruzione del suo magnifico Tempio.
Allo stesso modo, nei riminesi di tempi a noi più vicini prevalse la discutibile tendenza a eliminare queste preziose testimonianze della storia riminese in occasione di rifacimenti – o, peggio ancora, di “restauri” – che furono il più delle volte totalmente distruttivi. Tombe e lapidi secolari, che facevano bella mostra di sé sui pavimenti o sulle pareti dei nostri edifici sacri vennero smantellate e spesso distrutte per essere riutilizzate come materiale edile.

La tomba di Isotta di Francesco degli Atti si trova nella Cappella di San Michele Arcangelo, la seconda sul lato destro dopo la Cappella di San Sigismondo e la cosiddetta Cella delle Reliquie. Il sarcofago è sorretto da due elefanti sostenuti da mensole, e reggono due stemmi che presentano le classiche tre bande scaccate di tre ordini, rosso e oro, inquartate con la sigla SI in cui una romantica teoria che perdura ancor’oggi vedrebbe le iniziali di Sigismondo e Isotta, ma che molto più pragmaticamente è l’insieme delle iniziali del solo nome Sigismondo (esempio tutt’altro che infrequente: lo zio di Sigismondo Pandolfo, Carlo, utilizzò la sigla KA nelle sue insegne). Lo stesso stemma campeggia a coronamento del coperchio. A sovrastare il tutto, un elmo coronato dal quale si diparte un ampio padiglione che abbraccia l’intera composizione, mentre un cimiero a doppia testa di elefante crestato si diparte dalla corona ed esalta due cartigli, speculari, con il motto Tempus loquendi, tempus tacendi.
L’iscirizione, che compare ben tre volte sul monumento – sul coperchio, sulla base del sarcofago e sulla lastra di bronzo – così recita:
D • ISOTTAE
ARIMINENSI • B • M •
SACRVM • MCCCCL •
Non tutti sanno che la lastra in bronzo nasconde una prima iscrizione, incisa nel marmo e celata per ragioni più che opportune. Eccola:

Stessa epigrafe e stessa data (1446) che compaiono su una medaglia, coniata da Matteo de’ Pasti, che al recto raffigura Isotta e al verso l’elefante malatestiano:

L’esaltazione di Isotta evidentemente risultò fuori luogo – bisogna pensare che nel 1446 la seconda moglie di Sigismondo, Polissena Sforza, figlia naturale di Francesco Sforza e dell’amante Giovanna d’Acquapendente, era ancora viva e vegeta – e suscitò probabilmente anche qualche malcontento, se si dovette correre ai ripari apponendo alla prima iscrizione una seconda ben più modesta.
Isotta morì il 9 luglio 1474, sopravvivendo di cinque anni al marito.

La tomba di Raffaele III Brancaleoni si trova nella chiesa di Santa Maria dei Servi, e precisamente in quella che fu la cappella di Sant’Andrea, costruita intorno alla metà del XIV secolo per volontà di Alessandro Agolanti, alla destra dell’altare maggiore. In un secondo momento sulla cappella venne costruito il campanile, la cui parte superiore venne demolita nel 1885 e ricostruita fino a far raggiungere alla struttura la ragguardevole altezza di 44 metri. Un tempo la cappella si apriva direttamente sulla navata, mentre al giorno d’oggi vi si accede attraverso una porta che si apre nel corridoio che porta alla sacrestia.
Il sarcofago di Raffalele III Brancaleoni – privo del coperchio – é parzialmente inglobato in uno dei muri che fungevano da basamento al campanile eretto nel 1885. E’ sostenuto da tre mensole e reca sul lato principale la seguente iscrizione:
DEO OPTIMO
RAPHAELI BRANCHALEONI RAPHAELIS F VIRO
NOBILI ET PATRI INCOMPARABILI POSTERIS
EIVS
BRANCHALEO ET MALATESTA FILII
L’epigrafe presenta al centro lo stemma della famiglia Brancaleoni, oriunda di Casteldurante: d’argento, alla branca di leone d’azzurro. Raffaele III Brancaleoni, figlio di Raffaele, visse in un arco temporale che va dal 1434 circa al 1487 circa. Sposò Francesca di Giovanni di Francesco de’ Barbati, ed ebbe numerosa discendenza: Lucrezia, Battista, Margherita, Caterina (moglie di Raimondo Almerici Malatesta), Giacomo Gentile, Giovanni Francesco, Malatesta (da cui discese la linea familiare estintasi nel 1777) e Brancaleone, cancelliere e uomo d’armi al servizio di Pandolfo IV Malatesta, detto Pandolfaccio, l’ultimo signore della città. Questi due ultimi figli sono citati nell’epigrafe, e sono coloro che commissionarono il monumento funebre che perpetuasse la memoria del padre. Un grazie doveroso all’Associazione Riminese per la Ricerca Storica e Archeologica (A.R.R.S.A.) che eseguì alcuni anni fa lo scavo e le analisi dei resti di ben due scheletri (un uomo ed una donna) trovati all’interno della sepoltura.
L’ultima tomba di cui ci occupiamo é quella di Giovanni Battista Paci (* 1545 + 1615), Commendatore dell’Ordine di Santo Stefano Papa e Martire, figlio di Nicola Paci e di Pantasilea di Giovan Francesco Passionei, nobile di Urbino. L’epigrafe sul lato frontale del monumento funebre, che spicca nella facciata della chiesa di San Giovanni Evangelista, é la seguente:
D O M
IOAN. BAPT. ARIMIN. ILLVST. GENER. PACIO EXIMIIS MERITIS
ORNATO VIRO ; S. STEPHAN. EQVITI COMENDATARIO QVI PCLARISS.
GESTIS. TERRA MARIQ. HEROS LAVDATISS. FAMAM EXTENDIT
FACTIS VIRTVTIS OPVS IV. ID. SEPT. M. DC. XV.
SEPTVAGENARIVS DECESSIT O PATRIAE DECVS
NICOLAVS EQVES SABAVD. ET FRANCISCVS FILII PIENT. POS.

I figli citati sono Nicola, cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, e Francesco, avuti da Bernardina di Pandolfo Lunardelli, nobile riminese. E’ probabile che l’iscrizione incisa nella cornice che sostiene il sarcofago – ANGELO VANTIO ARIMIN. PRIORE 1618 – si riferisca alla data conclusiva dei lavori al sepolcro, quando Priore degli Eremitani di Sant’Agostino era Angelo Vanzi (+ 1648).