Pubblicato la prima volta il 19 Aprile 2016 @ 00:00
Sarà fatta la volontà divina: un’espressione che non necessariamente era legata alla fede, tanto che veniva pronunciata come fosse un’unica parola “esaràquèlchediovò” e serviva, piuttosto, a sugellare una sorta di rassegnazione, una delega al Superiore che, in quanto tale, ha tutti gli elementi per decidere, non diversamente dalla Sorte o dal Destino. Insomma, una buona dose di fatalismo che, spesso, era la sola cosa che si possedeva senza costo: non a caso anche questo modo di dire era ricorrente laddove mancavano le possibilità e mezzi adeguati ad affrontare le difficoltà della vita. Un’espressione di significato diversa da un’altra, pure di ispirazione divina “dio vede e provvede”, che voleva essere un auspicio a volte speranzoso a volte minaccioso, confidando in un dio o nel fato che facessero giustizia e dessero ad ognuno secondo il merito.
Quando la nonna andava lavorare alla fornace con la febbre e “se mèl m’adòs”, la mamma tentava un “a scapè ènca òz?”, la risposta era immancabilmente “bsägna andè… e sarà què che dio vò”. La stessa risposta, probabilmente, se l’è data la Elsa che ha partorito due figli senza mai una visita ginecologica e che, al momento delle doglie, si era recata a piedi all’Ospedalino di Corso D’Augusto, allora noto come “Aiuto Materno” e a piedi era tornata a casa col fagottino: il primo, Romeo, nato sotto peso e che stava in una scatola delle scarpe. E, raccontava “am so mèssa sóbit a lavurè alla faza dlà quarantèina” e, per giustificarsi, aggiungeva “alóra na vòlta clì parturìva ti fòs e ja tajeva e’ curdòun slà falzèta?”.
Del resto a tanti malanni non si dava peso con la stessa filosofia “è sarè quèl….”. Quante volte abbiamo sentito “dai, dai tòsa, finchè dùr tè, a dùr ènca mè..”, vale a dire che la tosse veniva presa non come sintomo di malattia, ma come conferma dell’esistenza in vita… tanto “è sarà quèl…”. “Dio vede e provvede”, invece, lo si affidava al futuro, anche a quello più vicino ovvero il domani quando la vita, memori ancora dell’esperienza di guerra, veniva vissuta giorno per giorno. Non è un caso che si usasse prevalentemente il verbo “rimediare /armidiè”.
Soprattutto nei primi anni dopo la guerra, inesistenti le qualifiche e scarsa l’istruzione, i principali lavori erano quelli di bracciante, manovale e “dòna ad serviziè” che si ottenevano dopo lunghe file all’Ufficio di Collocamento che, peraltro, non sempre andavano a buon fine; ho già raccontato che gli uomini aspettavano la neve per “ciapè chi dó sòld”, andando a sbadilare per pulire i binari alla stazione. Dunque “si comprava” poco o niente, si prendevano in prestito utensili ed attrezzi, si rimediavano mobili dismessi dai “signori”, vestiti riciclati e, come più volte detto, si rimediava anche il cibo andando a raccogliere le erbe in campagna o le poveracce a “marina” e quando finiva la giornata il commento detto o pensato era “ènca òz aj l’avém fata… domani dio vede e provvede”.
Ed anche questa era un’espressione che veniva pronunciata a prescindere dallo spirito religioso, era una fiducia necessaria, se si voleva sopravvivere, in una provvidenza che, di volta in volta prendeva un volto diverso.. a volte era il muratore del cantiere sorto dove prima c’erano i campi che, impietosito, regalava i cavoli rimasti, a volte erano le galline che la padrona regalava alla nonna perché “avevano preso la malattia”, mentre era stata la nonna stessa a dare quello scriccotto che aveva fatto penzolare il collo.
Ma, spesso, dietro l’invocazione divina, c’era un sentimento religioso ancorchè molto terreno, che non si affidava ai mistreri della fede ma alla comprensione umana; una religione che distribuiva i compiti fra i vari santi a partire dalla più richiesta, Santa Rita, la santa delle cause più disperate, a lei si chiedeva il lavoro per il marito, sì perché quello di chiedere esplicitamente le grazie, era un compito prettamente femminile, soprattutto se ci si rivolgeva alla Madonna “madunèina, fasì truvè…”, si manifestava la preoccupazione per il figlio che aveva preso un brutto giro “se va vènti isè e và fnì tè culeģ di birichìn”, per la figlia “clè stè sgrazièda” sposando un uomo manesco.
Ma quel modo di dire “dio vede e provvede” non sempre aveva un contenuto volto all’indulgenza, non sempre veniva pronunciato in modo remissivo e, non di rado, concludeva una lite dove non si era avuta la meglio, commentava fatti e notizie poco lusinghieri di cui si era venuti a conoscenza, per cui il rimando al dio che “provvede” suonava come una minaccia, un preavviso di vendetta o, quantomeno, un malaugurio che faceva il pari con “dio faza che…”.