Pubblicato la prima volta il 12 Novembre 2016 @ 00:00
Raccontare degli anni ’50/’60, è sicuramente una forma di auto analisi che, come già detto, aiuta a comprendere dove affondano le radici di alcuni schemi mentali che ti porti dietro nonostante le diverse esperienze della vita, gli stimoli culturali, le relazioni sociali. Nessuna interpretazione filtrata da ideologia ma una sorta di fotofinish, dove a fermarsi è l’età dello sguardo per cui alla mente tornano le sensazioni prima ancora delle immagini e dei pensieri. Viene di rimando la percezione netta della divisione, anzi distinzione dei ruoli tra uomo e donna. Da poco le donne avevano ottenuto il diritto al voto, inconcepibile, in quel momento la legge sul diritto di famiglia mentre il delitto d’onore ispirava i film e la norma sull’abbandono del tetto coniugale si abbatteva pressoché esclusivamente sulla moglie. E la società matriarcale tante volte dipinta col cipiglio delle azdore, era, per l’appunto, riferita ad una gestione domestica dove il margine di scelta praticamente non esisteva se non per obiettivi essenziali che poi, alla fin fine, si riducevano alla necessità di assicurare il pasto di tutti i giorni.
Si lavorava per mangiare, si mangiava per poter lavorare. Questo, uno dei motivi per cui la parte più abbondante e sostanziosa, spettava all’uomo, al capofamiglia che lavorava “fuori” mentre la moglie, per ultima, raschiava il tegame col pane. L’aceto allungato con l’acqua in sostituzione del vino e, racconta la mamma, quel quadretto di piada nascosto sotto il materasso per “farlo durare di più” dava un appagamento unico ad andarlo a scovare durante la notte. Un “cartoccio” di zucchero o delle arance, il privilegio riservato ai malati che si andavano a trovare in ospedale. Nella bottega dei generi alimentari le donne si contendevano i “culi”, oggi “finalini” dei salumi, le “molliche” del tonno rimaste sul fondo del barattolo di latta, l’olio nella boccetta della birra, dieci lire di conserva, mezzo chilo di pasta, “e’ gambóz” (la parte finale del prosciutto). La scusa: “l’è pio’ sapurìd”, ma la ragione era che veniva venduto a minor prezzo.
Sì, il cibo era un valore e per la generazione che lì si è formata, lo è ancora, una generazione immune dalle tentazioni di fast food, surgelati e sughi pronti. Ho sempre pensato che la salsina verde con cui ho visto farcire i panini del Mc Donalds assomigliasse al vomito del gatto. Non a caso l’espressione “vado a fare la spesa” era riferita all’acquisto prevalentemente di cibo. Prodotti sfusi a quantità giornaliera non solo perché, ancora lontano il frigorifero, era impossibile preservarli ma perché la quantità “calcolata” assicurava contro ogni forma di spreco: quello c’era e quello doveva bastare. C’era un’abilità speciale del bottegaio, vecchio di mestiere, nell’incartare i prodotti, la carta gialla e del taglio appropriato, un volta riempita, veniva ripiegata, ai lati, muovendo contemporaneamente indici e pollici, dal basso verso l’alto fino al tocco conclusivo che, all’apice, sigillava la confezione, quasi a tenuta stagna. A noi bambini piaceva poi “scartuzè” riponendo nei barattoli e nelle scatole di casa. Dunque alla donna il compito di far quadrare il bilancio, di far fruttare quella busta paga conservata nel cassetto del comò, celata agli occhi degli estranei, tra la biancheria.
Ecco, il “non far vedere” era uno status di quel periodo. Pudore, riservatezza, orgoglio. E certamente anche ignoranza. Si badi, non mancanza di sensibilità ma penuria di informazioni anche dovuta ad un basso tasso di scolarizzazione. E poi si cominciava solo allora a mettere la testa fuori casa. Si usciva dai rifugi che non erano solo quelli della guerra, bisognava impadronirsi di nuovi simboli entrare in contatto con un mondo che, fino ad allora, sembrava rinchiuso nella scatola della radio e nella “settimana INCOM”, il cine giornale che precedeva la proiezione del films nelle sale cinematografiche. “I l’ha fat véda te’ fim Luce”… così chiamato perché negli anni precedenti le informazioni passavano attraverso il Giornale Luce, prodotto dall’omonimo Istituto. Si usava un modo di dire oggi in disuso: “non dar confidenza”, soprattutto agli uomini, che poi era anche un modo di vivere mentre la raccomandazione ricorrente ai bambini era “ nu fa e’ sfazèd” fino al punto che veniva imposto di rifiutare anche quando ci veniva offerto qualcosa, soprattutto cibo, “dop i dìs c’an vi dém da magnè”.
[Ricordo la rivendita di “Sali e Tabacchi e generi vari “di “Bigiola” nei pressi del bivio per Sant’Aquilina. Vi si trovava di tutto: sale, tabacchi, riso, pasta, conserva di pomodoro, “pitture “ di baccalà e di “lumbardòun” (stoccafisso),”sardèli” (acciughe sotto sale), tonno, aringhe, caramelle, confettini colorati per la ciambella, castagne secche, cannella, noce moscata, spago, quaderni, matite, carta oleata, sapone, bandella, filo da cucire e per lavorare ai ferri, bottoni, aghi, petrolio e carburo per l’illuminazione; inoltre aspirine, purghe e pastiglie di potassio per il mal di gola].