Parlate riminesi #5

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Foto di Davide Minghini © Biblioteca Gambalunga

Pubblicato la prima volta il 9 Ottobre 2016 @ 15:14

Foto di Davide Minghini © Biblioteca Gambalunga
Foto di Davide Minghini © Biblioteca Gambalunga

Abbiamo visto che ci sono zone della Romagna in cui “ladro” si dice ‘lèdar’ e “dammene” si dice ‘dàman’; altre in cui si dice, rispettivamente, ‘lèdre’ e ‘dàmne’; e altre ancora in cui si ha ‘lèdri’ e ‘dàmni’. Ho anche detto che nelle zone di confine si ha un certo rimescolamento.

Ma quali sono questi confini? Ovvero: come sono distribuite queste diverse “soluzioni”?

La zona a nord del Marecchia, fino a Santarcangelo, è il regno incontrastato della ‘i’ finale, cioè della soluzione ‘lèdri’. Il territorio di Santarcangelo è una zona di confine fra ‘lèdar’ e ‘lèdri’, sicché si sovrappongono e in parte si mescolano i due sistemi. In città si dice ‘lèdar’ (veramente a Santarcangelo l’esito della A accentata non è una vera e propria ‘è’, ma ora questo non ci interessa), mentre nella campagna circostante si dice per lo più ‘lèdri’. E comunque anche in città i due sistemi in parte si sovrappongono, soprattutto nelle costruzioni grammaticali. Questo comunque è un problema che riguarda il passaggio dal sistema ‘lèdri’ al sistema ‘lèdar’, e ai riminesi interessa limitatamente. Ciò che dobbiamo tenere a mente è che il sistema ‘lèdar’ non riguarda Rimini, e bisogna arrivare almeno fino a Santarcangelo per averne sentore. Le parlate riminesi sono coinvolte invece dallo “scontro” fra ‘lèdri’ e ‘lèdre’, poiché il confine fra questi due sistemi attraversa proprio il territorio riminese. Troviamo stabilmente ‘lèdre’ solo nella parte meridionale del territorio, cioè in Valconca, a Riccione eccetera, mentre nella parte centrale del territorio, compresa la città, si ha tutta una serie di sovrapposizioni e soluzioni intermedie.

Dicevo che ‘lèdri’ domina a nord del Marecchia, ma lo oltrepassa anche verso sud, estendendosi a Verucchio e a una parte del territorio di San Marino. Fra San Marino e Rimini la penetrazione verso sud è ancora più profonda: giunge a tratti all’Ausa, e in alcuni punti si estende fino al Marano. Si potrebbe quasi essere tentati di dire che in realtà il confine più che il Marecchia era l’Ausa, se non fosse che il centro della città, almeno fino a pochi anni fa, ha mantenuto stabilmente la soluzione ‘lèdre’, respingendo ‘lèdri’.

Alcuni anni fa ho fatto una ricerca che ha richiesto mesi di lavoro. Ho cercato alcune decine di riminesi nati prima della Seconda guerra mondiale in varie zone del territorio comunale. Si trattava per lo più di informatori nati negli anni ’30 del secolo scorso, ma sono riuscito a trovarne anche alcuni nati negli anni ’20, e una delle mie informatrici era nata addirittura nel 1919. Mettendo assieme tutte queste interviste sono riuscito a farmi un’idea delle parlate riminesi attorno agli anni ’30 del secolo scorso. Aggiungo che ho scelto i miei informatori cercando per lo più fra le persone nate da famiglie di origine riminese, in modo tale da avere anche una continuità famigliare.

Ebbene, dalla mia ricerca è emerso che all’epoca in città si diceva stabilmente ‘lèdre’. Bastava però uscire dalla città, anche di poco, per trovare ‘lèdri’. Ad esempio ho sentito per lo più ‘lèdri’ negli informatori cresciuti nella zona della “Polverara” (in toscano sarebbe “Polveraia”). Ma non nel borgo di San Giovanni e in quello di Sant’Andrea, dove ho trovato solo ‘lèdre’ (ovviamente non ho intervistato tutti, per cui ci può essere qualcuno che è cresciuto in questi borghi dicendo ‘lèdri’: dico solo che io non l’ho trovato).

La conferma che in città si dicesse ‘lèdre’ ci viene poi da tutta la letteratura dialettale riminese del passato. Ad esempio Luigi Tonini (1807-1874), il noto storico e direttore della Gambalunga, dovendo tradurre una novella del Boccaccio in dialetto riminese traduce “Sepolcro” con ‘Sepolcre’. Ubaldo Valaperta (1825-1875), autore della nota commedia ‘La Franzchina dall’aj’, scrive ‘lezme’, ‘credle’, ‘allegre’ per “leggimi”, “credilo”, “allegro” eccetera. Domenico Francolini (1850-1926), appartenente alla ricca borghesia riminese, intellettuale e sposato alla nobildonna Costanza Lettimi, scrive ‘quatre’, ‘urle’, ‘ferme’, ‘quedre’, ‘inverne’ per “quattro”, “urlo”, “fermo/-i”, “quadro”, “inverno” eccetera. E questo per citare solo i più noti autori dell’Ottocento, tutti appartenenti alla borghesia urbana squisitamente riminese. Passando al Novecento, abbiamo Liliano Faenza (1922-2008), cresciuto nel Borgo San Giovanni, che scrive ‘inferne’, ‘quatre’ per “inferno”, “quattro” eccetera. Per il centro cittadino possiamo considerare Glauco Cosmi (1921-1991), che scrive ‘quatre’ per “quattro”, ‘fèrme’ per “fermo” eccetera. C’è poi la ricca documentazione di Gianni Quondamatteo (1910-1992) che, benché cerchi di dar conto di tutte le parlate riminesi, per la parlata urbana di solito sceglie le soluzioni di tipo ‘lèdre’, e associa le soluzioni di tipo ‘lèdri’ alle parlate campagnole.

Dicevo che nel centro della città si sentiva stabilmente ‘lèdre’. Stando alle mie ricerche, si trovava poi ‘lèdre’ a Marina (a partire dalla Destra del Porto) e sulla Sinistra del Porto. La “zona di trincea”, dove i due sistemi si fronteggiavano aspramente, era costituita dal Borgo San Giuliano e dalla Barafonda.

Una delle caratteristiche delle zone di confine, in cui si sovrappongono due sistemi, è che si trova spesso un proliferare si soluzioni individuali, spesso innovative. Un bambino che cresce sentendo dire ‘lèdre’ e ‘lèdri’, deve trovare comunque una sintesi se vuole parlare una lingua, e questa sintesi la trova in modo inconsapevole nei primi anni di vita. Ho conosciuto persone cresciute nel Borgo che dicevano stabilmente ‘lèdre’ e altre che dicevano stabilmente ‘lèdri’, ma ne anche conosciute alcune che, appunto, avevano adottato soluzioni innovative. Ad esempio un paio dei miei informatori, forse condizionati dall’italiano, dicevano ‘lèdre’ per il singolare e ‘lèdri’ per il plurale. Altri informatori avevano risolto il conflitto modificando il suono di quella vocale finale. In centro e nella parte meridionale del territorio comunale chi dice ‘lèdre’ lo dice con una ‘e’ finale bella aperta, ma nel Borgo ho sentito informatori pronunciare ‘lèdre’ con una ‘e’ finale chiusa, o anche molto chiusa, che per l’orecchio di un riminese del centro poteva sembrare una ‘i’. Come dicevo, c’era tutto un proliferare di soluzioni innovative e spesso personali.

Ora, chi fa ricerche di linguistica trova spesso casi come questo: ci sono due aree geografiche contigue, nelle quali si hanno due diverse “soluzioni”, e in mezzo una zona di transizione. Noi qui abbiamo un’area meridionale in cui si trova stabilmente ‘lèdre’, un’area settentrionale in cui si trova stabilmente ‘lèdri’, e poi un’area intermedia di sovrapposizione un poco “caotica” dei due sistemi. Se tutto ciò risulta chiaro e prevedibile osservando una cartina geografica, è un po’ meno chiaro quando ci si interroghi sui dettagli delle dinamiche che hanno prodotto quello stato di cose. E qui forse potrebbero venirmi in aiuto gli storici.

Una delle dinamiche più rilevanti è il progressivo inurbamento. Ovunque io faccia delle ricerche, scopro che molte persone che sono nate e cresciute in città discendono da famiglie che vivevano in campagna fino a una o due generazioni fa. Ora, se è vero che nella campagna a nord di Rimini si dice ‘lèdri’ e che nel Borgo San Giuliano si sentiva ‘lèdre’ e ‘lèdri’, mentre a San Giovanni e Sant’Andrea non ho trovato ‘lèdri’, mi viene da pensare che chi “approdava” alla città lo faceva solitamente insediandosi nel borgo più vicino alla sua area di origine. Può sembrare un’ovvietà, ma oggi non sarebbe altrettanto ovvio. Se una famiglia che vive, diciamo, a Viserba, oggi vuole trasferirsi in città, e trova una casa a condizioni favorevoli nel Borgo San Giovanni, non esita a cogliere quell’occasione. Invece, a quanto pare, fino a pochi decenni fa per chi viveva a Viserba l’“ingresso” della città di Rimini era, a tutti gli effetti, il Borgo San Giuliano, ed era quello, per così dire l’“approdo naturale”. Questa è solo una mia impressione, al più una congettura, e andrebbe suffragata dalle ricerche degli storici e dei sociologi. Come linguista mi limito a prendere atto che lo stato delle cose era quello descritto qui sopra.

Ringrazio chi mi letto pazientemente fin qui. Alla prossima!

Davide Pioggia

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