“La scaràna”

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Pubblicato la prima volta il 20 Ottobre 2016 @ 00:00

Quando, a quel tempo, si citava la sedia era quella della cucina, ché non c’era certamente il tinello o sala da pranzo, tantomeno il salotto, mentre si dovranno aspettare i primi anni ’60 per vedere le due sedie ai piedi del letto – quelle lucide ed imbottite – che non si usavano mai se non per appoggiarvi gli abiti, la sera, prima di coricarsi.

Erano importanti, le sedie, perché servivano per stare a tavola a pranzo e cena e, non di meno per eseguire i compiti di scuola dato che la “cameretta” dei bambini si vedeva solo nei film americani. Era sempre nella sedia che trovava ristoro il babbo quando rientrava dal lavoro e la mamma gli toglieva le scarpe e gli preparava le ciabatte, era quella che accostavamo alla stufa quando dovevamo asciugarci i capelli, era ancora la sedia che fungeva da scala e rialzo per arrivare alla sommità degli armadi o per pulire i vetri della finestra nella parte più alta; era lì che, ribaltata, ci mettevano quando ancora non eravamo in grado di stare dritti da soli, ci infilavano in mezzo ai pioli in una specie di girello “fai da te”; era lì che ci dondolavamo appena più cresciuti mentre la mamma “stà bòn chèt casc et spàc ènca la scaràna” e non si sapeva cosa temessero di più delle due cose; con la sedia, il babbo, si avvicinava il più possibile alla radio, con l’orecchio quasi attaccato all’altoparlante per sentire “il bollettino dei naviganti”; sulla sedia appoggiavamo il catino, quando ci si lavava “a pezzi” in attesa del bagno settimanale nel mastello. Erano le sedie che accoglievano quelli che prendevano parte alla veglia serale e che si portava da casa, ognuno la propria, nelle serate d’estate, quando il ritrovo era nei cortili o in strada, davanti al portone. Era la sedia che si offriva all’ospite che ci veniva a trovare, tanto che mica si diceva “siediti” ma direttamente “tò na scaràna”. E sarà servita anche a qualcosa d’altro se è vero il detto “chi t’ha fàt ma tè, scaràna o banchèt?”.

Così importanti, dunque, da costituire, col letto, i mobili essenziali della casa. Si poteva fare a meno dell’armadio o del comò, della credenza o del baule… ma non delle sedie. Ricordo le nostre, della casa di Via Cairoli: erano belle, devo dire, perché acquistate, nuove, quando babbo e mamma si erano sposati ché allora, al momento del matrimonio, “us faséva camèra e cusèina”. Dio grèzia!

La camera da letto di babbo e mamma aveva i letti singoli che, accostati, formavano quello matrimoniale: no, non perché fossero all’avanguardia ma perché così combinata costava meno; le dimesioni ridotte dell’armadio rivelavano che si trattava di una camera da ragazzi e non matrimoniale; i due comodini ai lati, coi calzetti nel cassettino di sopra e “l’urinèl” nello scomparto con l’antina, la madonna di gesso circondata dalla ghirlandina di ulivo benedetto, che si rinnovava di Pasqua in Pasqua, posta nella parete sopra la spalliera, la bambola (chi l’aveva) coi cappelli di stoppa, il vestito lungo e largo, seduta a gambe spalancate nel mezzo tra i due cuscini.

La cucina con la credenza, quella con la vetrinetta in alto, dove si intravedevano tazzine per lo più spaiate, un’oliera mai adoperata, il servizio avuto in regalo, quello coi bicchierini dorati, le fotografie, per lo più dei morti, incastrate tra i due vetri: in quella della nonna anche qualche santino; gli sportelli in basso e la parte alta, a colonna di lato oggi si rivedono, riverniciate nelle ville di campagna, che fa molto vintage. E poi c’era il tavolo ricoperto di marmo che, non meno delle sedie, era polifunzionale, dato che non esistevano piani di lavoro. Era sul tavolo che “us cunzéva e’ pès… agli èrbi… s’impanèva al cutùlèti… us fèva la spòja sóra e’ tùlèr… i burdèl i fèva i còmpìt… e bà e’ sùlitèrie”, con il buco dove s’infilava e’ s-ciadùr, e’ tulèr ed il cassettino per le posate. Ci si stirava col ferro, che prendeva il nome dalla materia che lo costituiva, di quelli che si scaldavano sulla stufa e si prendevano con una presina per non scottarsi, poi si passavano sui panni appoggiati su una vecchia coperta che aveva impressi marchi delle bruciature: si otteneva l’effetto “vapore” usando un fazzoletto bagnato che, per gli induenti più scuri veniva imbevuto dei fondi del caffè.

Le nostre sedie erano considerate “moderne”, di legno con lo schienale incurvato. Sì perché le famiglie del palazzo di via Cairoli, per lo più, avevano sedie impagliate e, spesso, diverse tra loro e quando la paglia “l’an ne pùtèva pió” si facevano impagliare, perché regola generale era che non si buttava via niente, o ricoprire di compensato e si cercava di riparare tutto prima da soli ricorrendo all’artigiano del caso.

Così la cucina scheggiata si portava dal “lustròt”, la scarpa dal calzolaio anche a risuolare chè “sóra l’è èncora nòv”, nei buchi dei pantaloni ci andavano le pezze, il rubinetto, l’unico, “spalèd”, si aggiustava con la canapa e la guarnizione nuova ritagliata da un vecchio copertone della bicicletta, quando il cappotto era “passato” a tutti i membri della famiglia si portava dalla “sartóra” per rimediare un “blusòun”, le calze smagliate di nylon dalla rammendatrice.

Invece nel nuovo millennio, diceva la Elsa, “jè tót sgnùr e i bóta via tót in quèl ma se la và vènti isè uj tochéra andèl arcòj….”.

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