“An cnusémie al fèsti”

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Pubblicato la prima volta il 14 Ottobre 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “An cnusémie al fèsti”

Non conoscevamo le feste. Non me ne voglia il santo Gaudenzo ed i tanti a lui fedeli od a lui interessati per la giornata di vacanza, per la tombola in piazza, per il piacere di gustare la piada dei morti, anche se, la piada dei morti sta al 2 novembre come il panettone sta al Natale. Quella piada dei morti con l’impasto scuro per il mosto del vino e che, appunto, entrava in pasticceria solo a novembre, non quella industriale, leggera sempre più simile alla brioche. Questa una delle frasi che ho sentito maggiormente pronunciare dalla Elsa riguarda proprio l’austerità di quegli anni, spesso non si sapeva nemmeno che ci fosse una ricorrenza da festeggiare o, anche sapendolo, valeva il “tanimodi per nun un cambia gnìnt”. E la Elsa lo ha detto anche quando costretta dagli anni e dalla condizione di salute ad una vita molto “ritirata”.

Oggi sono impedimenti anagrafici ed affini, allora era lo stato sociale, la mancanza di risorse, gli stili di vita basati su ritmi e funzioni essenziali e così fino al citatissimo boom economico che, a sua volta, porterà nuovi strumenti di comunicazione e l’avvio delle campagne pubblicitarie che tanta influenza avranno sui gusti e sulle tendenze. Io stessa, proprio in virtù delle usanze di famiglia, ho scoperto solo negli anni ’60 che il 31 dicembre fosse un giorno da festeggiare e, quand’anche l’ho scoperto, per anni ho ascoltato i racconti di come lo vivevano gli altri perché per noi, la mia famiglia, “l’èra un dé cume ch’i èltre”.

Certo si riconosceva il Natale, e su questo mi sono soffermata più volte ed a lungo, ma il Natale che iniziava il 24 e terminava il 27, il che lo rendeva unico ed atteso tutto l’anno, che faceva pregustare il rituale dei cappelletti che noi bambini aiutavamo a chiudere, la solennità dell’albero di natale allestito rigorosamente la notte della vigilia con mandarini, pigne colorate con la porporina, quella vigilia che andava tassativamente rispettata mangiando pesce e verdure, non solo e non tanto per rispetto dei precetti religiosi ma perché questa specie di astinenza faceva gustare di più la gallina, il salame matto, la zuppa inglese del 25: ecco, quel Natale si riconosceva non quello che porta il panettone nei supermercati a settembre e le luminarie ad ottobre “che dòp – dice mamma – quand l’arivà è Nadèl da bòn ta tcè zà stóf”… non lo squallore di quelle lampadine colorate che per pigrizia e negligenza rimangono ad adornare gli ingressi dei ristoranti fino all’anno successivo; non i “ pacchetti” che offrono salmone di scarsa qualità, peraltro lontanissimo dalle nostre tradizioni, uno champagne della “mutua” come dice la Elsa quando, ai suoi tempi, scegliere i prodotti più buoni e sicuri era un modo per rispettare l’eccezionalità della festa, individuando i contadini per acquistare la “galèina ad càl bòni” si cominciava in estate.

E certo, c’era la Pasqua ed anche il Ferragosto e c’era soprattutto il 2 novembre, il giorno dei morti… quando era d’obbligo andare al cimitero perché “l’è la su festa” come sottolineava la Elsa, indignata perché mentre è rimasta ufficialmente la Festa dei Ognissanti, è stata abolita quella dei Defunti, “an capès perché – dice mamma – i mòrt a j’avém tót, i sènt snà quìl chi i vò créd”. Dunque San Gaudenzo passava pressoché inosservato: che le banche fossero chiuse non era davvero rilevante, ché tanto poco si frequentavano da non conoscerne nemmeno l’ubicazione. E che fossero chiusi anche i negozi non era certo un problema dal momento, perché “comprare” non era tra le priorità di quel tempo.

Caso mai capitava di sentire dire: “l’è san gaudènz e ancora un è arvat è frèd… meno male isè a sparagném la legna”.

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