Pubblicato la prima volta il 25 Settembre 2018 @ 18:45
Il Campanile è sempre stato uno dei simboli della presenza di una Comunità e quello di San Nicolò, rimasto in piedi dopo numerosi bombardamenti, è nei miei ricordi circondato da tante macerie.
Mi riusciva, a me bambino, difficile comprendere veramente il significato della presenza di quelle persone, donne e uomini che in fila, lì dove ora è il campo di basket, ricevevano l’offerta di un piatto di minestra calda, cosa che per fortuna diventò sempre meno frequente.
Questa cucina diventava poi anche la nostra sala giochi:oltre che il campetto esterno, anche la zona interna si animava attorno ad un tavolo da ping pong, quasi sempre sprovvisto di palline, che diventava terreno di conquista appena “Libero”, il sagrestano, si decideva ad aprire finalmente la porta a noi ragazzini impazienti.
Spesso il suo ritardo, forse per una partita a briscola troppo impegnativa al Bar Marittimo, ci spingeva ad escogitare nuovi punti di entrata. Danilo M., il più agile, arrampicandosi riusciva a penetrare da una piccola finestra, ancora esistente, quella da cui Don Angelo, nelle grandi occasioni, lanciava caramelle sulle teste di noi maschi. Nel frattempo le femmine erano rigorosamente raccolte sul terrazzo, ben separate da noi, impegnate nel catechismo dalle “pie” donne della Parrocchia. Su quella terrazza viveva un bellissimo e mansueto cane bianco, un maremmano, di nome “Friz” che, appena possibile, non visto dalla Perpetua, andavo ad accarezzare, iniziando con lui quel rapporto affettivo che poi si è trasformato nella mia professione.
La sorpresa di Libero nel trovarci già dentro l’oratorio poteva prendere strade diverse a seconda del suo umore. Ma, di conseguenza, noi rispondevamo con la rappresaglia come quando si sentivano suonare tutte le campane senza motivo oppure quando, impugnando le corde campanarie, si ritrovava le mani tutte imbrattate di materiale solido organico innominabile.
Tuttavia, noi tutti lo consideravamo un elemento indispensabile della nostra vita e proprio da lui imparai, più grandicello, a servire messa diventando uno dei migliori “chierichetti”con paga base £ 25 per ogni funzione. Effettivamente io avevo sempre soldi in tasca dato che, con Don Angelo, risultavo vincente al termine di ogni contrattazione, ottenendo favorevoli rimborsi per i miei servizi.
Infatti, per accompagnare i defunti al Cimitero, compreso il ritorno con il carro funebre, riuscivo a rimediare un compenso di £ 500 trasformato subito in “buoni ingresso” al cinema parrocchiale per cinque domeniche successive, con il consenso non molto entusiasta del nuovo gestore maestro Rossi.
Il nostro “Cinema Paradiso” era stato ottenuto dalla trasformazione della vecchia chiesa, una volta ultimata la nuova, e potevamo assistere ad una ampia rassegna: da “Bernadette”a “Passaggio a Nord Ovest”. Capitava, a volte di aiutare il cineoperatore, il nipote del Parroco, quando la sala iniziava a fischiare in modo violento alla rottura di queste vecchie pellicole.
La costruzione della nuova chiesa, per Don Angelo, fu un impegno gravoso ereditato dallo zio Don Giovanni, il vecchio Parroco, impegno che richiese il reperimento di numerosi fondi.
Quando Don Calandrini volle fondare la Parrocchia di San Girolamo, sottraendo la componente più ricca dei nostri parrocchiani, si creò un motivo di conflitto dentro la Curia che, associato ad altri quali, ad esempio, le modalità nella alienazione di strutture di proprietà della Diocesi, portarono ad una rottura clamorosa tra il nostro Curato ed il Vescovo Bianchieri che si potrebbe riassumere nella famosa frase “Via io o il Vescovo!”.
Affermare che la nostra comunità fosse molto vasta e ricca mi è molto facile dato che per qualche stagione, dietro compenso di £ 5000, seguivo il Parroco nella benedizione pasquale di tutte le abitazioni, compreso il Grattacielo, ciò che mi consentiva di entrare, come un piccolo angelo osservatore, nel cuore di ogni famiglia, osservando la presenza o meno di comodità che attualmente passerebbero inosservate (il telefono, il termosifone, la televisione, la camera da letto dei bambini, il bagno, i libri, la domestica in alta uniforme, ecc..).
Nelle case dei poveri si sentiva, dopo la benedizione, il “rumore” di una moneta che cadeva nel fondo dell’acquasantiera che portavo in mano. Il “silenzio” nelle case dei ricchi veniva apprezzato ancora di più perché significava una offerta di denaro cartaceo in busta che, appena in strada, Don Angelo mi ricordava sempre di consegnarli.
Le famiglie “povere” manifestavano, nella preghiera, la speranza che qualche cosa potesse cambiare, mentre quelle “ricche” dicevano che si accontentavano, bastava la salute (quando tutti noi sappiamo che spesso la malattia e la sofferenza sono proprio il risultato di una grande miseria).
Il progetto della nuova chiesa non fu molto ben accolto da noi bambini perché costretti ad abbandonare le nostre capanne, costruite con grande impegno e rischio, con canne reperite lungo i binari. Si ridusse così l’ampio territorio del nostro “campo indiano”, terreno di numerose e cruente battaglie tra noi e la tribù nemica guidata da Nevio e proveniente dal palazzo Ceschina.
L’inaugurazione arrivò in una notte di Natale molto fredda, mancando, oltre al riscaldamento, anche il pavimento e tutti gli arredi, venne accesa al centro una pira di legna creando un’atmosfera magica che nessun altra natività è più riuscita a sostituire nei miei ricordi.
Il nostro Parroco, come tutte le personalità forti ed istruite, non manifestava timori reverenziali per nessuno. Ora che poteva utilizzare un microfono era capace di interrompere una funzione religiosa, chiamando per nome colui che disturbava. Ai fedeli, poi, ricordava sempre l’offerta, anche d’estate, per il riscaldamento della chiesa, facendomi passare per la questua con un cestino di paglia.
Era un amante delle statistiche e così, alla fine di ogni Comunione Pasquale, gli dovevo sussurrare, mentre riordinavamo lo strumentario, il numero esatto dei fedeli che si erano accostati al sacramento che lui riferiva all’assemblea, confrontando i dati con quelli dell’anno precedente. La santa messa in quel tempo, oltre ad essere in latino, veniva celebrata con tutti noi rivolti verso l’altare, cosa non sempre da me gradita quando, in ginocchio, ero costretto a esporre pubblicamente le mie scarpe con le suole consumate o meglio provviste di grandi toppe.
Il rapporto con i diversi Cappellani che si avvicendarono negli anni fu sempre cordiale: Don Oreste Benzi, Don Ciro Macrelli, Don Aldo Magnani (?) trascorrevano con noi parte del loro tempo e agivano da precettori aiutandoci a risolvere i nostri dubbi spirituali che diventavano sempre più numerosi e insistenti. Ricordo che una volta Don Ciro, per concludere il discorso, mi disse : “È così e basta!”.
Il momento “clou” della nostra vita parrocchiale era quando coralmente partecipavamo alla costruzione del Presepe guidati da alcuni giovani esperti di impiantistica (Pedriali in primis) oppure, nel periodo del Carnevale, quando concorrevamo, insieme ad altre comunità e borghi, alla creazione dei carri mascherati con temi allegorici ben specifici.
Mia zia Maria assolutamente non si adeguava come quando utilizzò il vestito bianco della prima comunione di mio fratello per trasformarmi in un Comandante di Vascello, mettendomi sul carro che rappresentava uno spaccato di vita agreste delle nostre colline!
La stessa cosa tentò di ripetere l’anno successivo, fallendo l’obiettivo, allorché, vestito da cow boy, per ben tre volte venni respinto e additato come provocatore, dal carro dei Salesiani che voleva portarci al Polo Nord con tanti esquimesi, pinguini ed igloo!
Questa bella occasione di ritrovarci in modo spontaneo e senza fini di lucro nella nostra città, venne poi a mancare nel momento in cui gli organizzatori decisero di occultare le sfilate con transenne, per fare pagare un biglietto d’ingresso.
Purtroppo, con il trascorrere del tempo, la vita parrocchiale incominciava a diventarmi noiosa e decisi di abbandonarla per mete più avvincenti: osservavo il passaggio su via dei Mille delle prime squadriglie di “boy scouts”. Reparto Nautico “Orsa Maggiore” con sede presso la Scuola del Marinaio. La nascita di questa associazione non era ben vista da Don Aldo che cercò inutilmente di dissuadere me e poi mia madre dall’impresa.
Ora, a distanza di tanti anni, osservando che anche in San Nicolò c’è un reparto scout, resto compiaciuto del mio intuito giovanile.
Da quel momento la chiesa mi tornava familiare solo per i tanti funerali che, ritmicamente, colpivano la mia famiglia, mentre il conflitto tra la Curia e Don Angelo si era talmente accentuato da portare alla sua sospensione dall’incarico, sostituito forse da Don Lino o da Don Fabio. Il vecchio reverendo si ritirò ad accudire il suo podere tra Santa Cristina e Montecieco, officiando la messa mattutina in solitudine.
Ma evidentemente il nostro stretto rapporto spirituale ed economico non era ancora concluso perché un giorno mi chiamò nella sua stalla e, mentre tentavo di fecondare, novello veterinario, la sua Medina o la sua Soraya, ritornavamo ai vecchi ricordi e ai suoi “gnocchetti” immortalati sulle nostre teste.
Poi giunse anche per me il momento di sposarmi con pochissimo entusiasmo di celebrarlo con il rito religioso. Per fare felici le zie credenti posi come condizione di accontentarle solo se l’avesse celebrato Don Angelo.
Inoltrammo la richiesta alla Curia e forse perché si era verificato l’avvicendamento con il nuovo Vescovo, Locatelli, il 13 luglio 1974, giornata bella e caldissima, tutti noi parrocchiani ritrovammo sull’altare il prete che tante volte avevo aiutato all’offertorio, versando quel suo ottimo vino bianco preparato ad ogni vendemmia con estrema cura nella cantina della parrocchia, zona “off limits” per tutti noi bambini, fornitissima anche di tanti prosciutti che riuscivamo ad assaggiare mandando il solito agile Danilo M. a conquistarli sul scivoloso palo dell’albero della “cuccagna”.
*(avevo una foto dove, in processione con l’immagine della Madonna della Scala, io chierichetto ero tra Don Angelo e il Vescovo Bianchieri ma non la trovo più e così metto come ricordo la mia foto vestito da cow boy che mia zia aveva comprato alla “Ravegnana” per il Carnevale del 19-3-1956)
Sergio Giordano