Parlate riminesi #9

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Chiacchiere al "Caffé delle Rose" - Archivio Storico Chiamami Città

Pubblicato la prima volta il 6 Novembre 2016 @ 20:45

Chiacchiere al "Caffé delle Rose" - Archivio Storico Chiamami Città
Chiacchiere al “Caffé delle Rose” – Archivio Storico Chiamami Città

Abbiamo visto che le vocali non accentate possono cadere (per poi essere eventualmente “compensate” dall’inserimento di vocali non etimologiche), oppure ridursi ad altre vocali. Ad esempio la prima E di MELÓNE cade e resta ‘mlòun’; anche la prima E di REFÀRE cade, ma viene “compensata” da una ‘a’, e così si ha ‘arfè’. Invece la prima E di BECCÀRE e la O di TOCCÀRE si riducono, rispettivamente, a ‘i’ e ‘u’, per cui si ha ‘bichè’ e ‘tuchè’ (o ‘biché’ e ‘tuché’ in quelle parlate in cui la ‘è’ lunga si chiude in ‘é’ dopo certe consonanti come ‘ch’).

Ora che ci siamo fatti un’idea del comportamento delle vocali non accentate, dovremmo affrontare la questione del nome della città di Rimini, ma non siamo ancora pronti, perché c’è una ulteriore difficoltà che si comprenderà in seguito. Si sarà notato, infatti, che non mi sono ancora “azzardato” a scrivere il nome della città nel volgare che si parlava qui molti secoli fa. Così per il momento ripiegherò su un caso che è analogo, ma che presenta una difficoltà in meno, ovvero la parola corrispondente a “tavolo”. Nel volgare che si parlava molti secoli fa a Rimini questa parola era come oggi in italiano: TÀVOLO (tolta la questione della effettiva pronuncia della V).

In precedenza abbiamo visto che la A accentata che si trovava davanti a una consonante semplice a Rimini è diventata ‘è’ (ad es. da PÀLO s’è avuto ‘pèl’), per cui la sillaba iniziale, TÀ-, ha dato l’esito ‘tè-’. Quanto alla terminazione della parola, -VOLO, sappiamo che la O finale cade sempre, per cui resta da verificare l’esito della O non accentata che si trovava fra la V e la L. Da quanto si è detto in precedenza si sarà capito che essa ha due possibili sviluppi: può cadere, oppure può ridursi a ‘u’. Se la O cade, da TÀVOLO si ha virtualmente ‘tèvl’, dopodiché bisogna aggiungere una vocale non etimologica per rendere pronunciabile la parola. Se invece la O si riduce a ‘u’, si ha l’esito ‘tèvul’, e qui non c’è bisogno di aggiungere alcuna vocale, perché la parola è già facilmente pronunciabile.

Per capire meglio come vanno le cose, seguiamo in parallelo lo sviluppo di LÀDRO e TÀVOLO. La O finale cade sempre, per cui da LÀDRO si ha sempre l’esito virtuale ‘lèdr’, mentre abbiamo visto che da TÀVOLO si può avere l’esito virtuale ‘tèvl’ oppure ‘tèvul’. Avremo dunque delle parlate con gli esiti ‘lèdr’ e ‘tèvl’ (entrambi virtuali) e altre con gli esiti ‘lèdr’ (virtuale) e ‘tèvul’.

Ora, sappiamo che gli esiti virtuali hanno bisogno dell’aggiunta di una vocale non etimologica per essere pronunciabili, e abbiamo visto che nell’area riminese viene aggiunta una vocale alla fine, che può essere ‘e’ o ‘i’ a seconda delle parlate. Così a partire da ‘lèdr’ e ‘tèvl’ ci sono delle parlate che derivano ‘lèdre’ e ‘tèvle’ e altre che derivano ‘lèdri’ e ‘tèvli’. Analogamente, a partire da ‘lèdr’ e ‘tèvul’ potremmo avere ‘lèdre’ e ‘tèvul’ in alcune parlate e ‘lèdri’ e ‘tèvul’ in altre. Io però di parlate in cui si avesse ‘lèdri’ e ‘tèvul’ non ne ho mai trovate. Non escludo che si sia qualche riminese che dica ‘lèdri’ e ‘tèvul’ ma, secondo le mie conoscenze, se c’è si tratta dell’esito di un recente rimescolamento delle parlate, che si manifesta a livello individuale. Quindi non è che le parlate con ‘lèdri’ e ‘tèvul’ non potessero esistere: semplicemente si prende atto che non ce n’erano, per contingenze storiche (e se poi troviamo una località in cui si dice stabilmente così non dobbiamo fare altro che aggiungere un altro caso al nostro “censimento” delle parlate).

Per chi è abituato a dire ‘lèdre’ e ‘tèvle’, o ‘lèdri’ e ‘tèvli’, una parola come ‘tèvul’ può sembrare analoga a ‘lèdar’, che si trova ad esempio a Cesena, ma ho già detto in precedenza che c’è una notevole differenza fra queste parlate e quelle riminesi. Infatti la ‘a’ di ‘lèdar’ è una vocale che non era presente nell’etimo, mentre la ‘u’ di ‘tèvul’ è dovuta alla conservazione di una vocale etimologica (sebbene ridotta). Questa differenza si comprende chiaramente nei femminili. Siccome la A non accentata finale si conserva, a partire da LÀDRA si ha ‘lèdra’ tanto a Rimini quanto a Cesena, perché la ‘a’ finale garantisce la leggibilità, e non occorrono altre vocali. Dunque a Cesena si ha ‘lèdar’ per il maschile e ‘lèdra’ per il femminile, e sembra quasi che per passare dal maschile al femminile si debba spostare quella ‘a’ prima e dopo la ‘r’. Le cose vanno diversamente quando c’è la tendenza a conservare le vocali etimologiche. Se la ‘u’ di ‘tèvul’ servisse solo a rendere leggibile la parola, da TÀVOLA potremmo avere ‘tèvla’, perché la ‘u’ sarebbe superflua. Invece a Rimini nelle parlate in cui si dice ‘tèvul’ si dice anche ‘tèvula’, perché c’è appunto la tendenza a conservare le vocali non accentate in quella posizione, a prescindere dai problemi di leggibilità.

Torniamo a “Rimini”. A questo punto il mio lettore avrà intuito che le parlate in cui si aveva ‘tèvul’ erano (almeno in origine) quelle in cui si aveva anche ‘Rémmin’, mentre quelle in cui si aveva ‘tèvle’ e ‘tèvli’ erano quelle in cui si aveva anche ‘Rémmne’ e ‘Rémmni’. Così abbiamo individuato tre gruppi di parlate:

  • lèdre, tèvul, Rémmin
  • lèdre, tèvle, Rémmne
  • lèdri, tèvli, Rémmni

La parlata in cui si diceva ‘tèvul’ e ‘Rémmin’ era, evidentemente, una parlata che aveva la tendenza a evitare la caduta delle vocali non accentate che si trovavano fra la vocale accentata e quella finale. In parole come TÀVOLO abbiamo infatti tre vocali: l’ultima non è accentata e cade (si conserverebbe solo se fosse una A); la penultima, che pure è non accentata, a quanto pare può cadere o ridursi a seconda delle parlate; la terzultima è accentata, e non può cadere. Quindi la peculiarità delle parlate che hanno ‘tèvul’ e ‘Rémmin’ può emergere solo in quelle parole che in origine avevano l’accento sulla terzultima vocale (le grammatiche tradizionali le chiamano “sdrucciole”). In effetti anche “Rìmini” è una parola fatta così, ma ancora non mi “azzardo” a scrivere il nome della città in volgare, perché non ho ancora affrontato quella difficoltà aggiuntiva di cui parlavo all’inizio. Per ora andiamo avanti con le altre parole.

Dicevo, qualche puntata addietro, che le parlate in cui si dice ‘lèdri’ si trovavano a nord del Marecchia e nel territorio a monte della città fra Rimini e San Marino. Invece ‘lèdre’ si trovava nel centro della città e lungo la costa verso sud (Miramare, Riccione), allargandosi poi a gran parte della Valconca e al territorio contiguo (parte del territorio di San Marino, Coriano ecc.). Ora, dirigendosi verso sud, dove domina ‘lèdre’, non si trova solo ‘tèvle’, ma anche la variante ‘tàvle’, per cui compare un’altra parlata (o meglio un gruppo di parlate):

lèdre, tàvle, Rémmne

Noi fin qui abbiamo visto tanti esempi in cui l’originaria A accentata davanti a una consonante semplice ha dato ‘è’ nell’area riminese, e anche in queste parlate in genere si ha lo stesso sviluppo, in parole come ‘pèl’ e ‘mèr’, da PÀLO e MÀRE. Peraltro anche LÀDRO è uno di quei casi in cui la A accentata si trovava davanti a un nesso consonantico equivalente a una consonante semplice, ed è per questo che si ha ‘lèdre’. Ma allora, se le cose stanno in questo modo, perché in queste parlate si ha ‘tàvle’ da TÀVOLO? Potremmo ipotizzare che si tratti di un’eccezione, un’irregolarità. Ma prima di “arrendersi” all’irregolarità bisogna pensarle tutte, anche perché queste parlate presentano diversi casi analoghi, come ‘càvle’ dalla parola corrispondente a “cavolo”, che anche in volgare, per quanto ne sappiamo, avrebbe dovuto essere CÀVOLO.

La prossima volta affronteremo questo problema.

Davide Pioggia

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