Pubblicato la prima volta il 20 Novembre 2016 @ 19:02
I lettori che hanno avuto la pazienza di leggermi fin qui si saranno un po’ annoiati a seguire nei dettagli le complicate vicende delle vocali non accentate nel corso dei secoli, e devo confessare che la nostra analisi di questi sviluppi non è ancora terminata. Ma vedremo che questa fatica ci sarà utile, non solo per distinguere le varie parlate, ma anche per dire qualcosa circa i rapporti fra le varie comunità che convivevano a Rimini. Questo è uno dei punti in cui il mio discorso può intrecciarsi strettamente con le ricerche degli storici e con la memoria dei riminesi. Però, come dicevo, ci vuole ancora un po’ di pazienza.
Torniamo allora alle parole che in origine avevano l’accento sulla terzultima vocale. Ho già detto che nella più tipica parlata cittadina c’era una spiccata tendenza a conservare la penultima vocale (al limite riducendola, comunque senza farla cadere), ma è pur vero che tutte queste parole potevano trovarsi, in città, anche nella variante con la vocale caduta. Questo è un punto dolente, sul quale spesso si finisce per polemizzare. Per molti riminesi nati in città da famiglie urbane l’unica variante veramente urbana è ‘Rémmin’, e costoro difendono energicamente questa loro percezione delle cose; ma se non si avanzano pretese di “purismo” e ci si limita a prendere atto dei fatti si dovrà constatare che si trovavano dei riminesi nati e cresciuti in città da famiglie urbane che dicevano ‘Rémmne’, oppure oscillavano fra ‘Rémmin’ e ‘Rémmne’. Assai significativo, a questo proposito, è il parere di Domenico Francolini (1850-1926), che in un suo sonetto del 1902 scrive questi versi: «La mi zità, sa ne savì, la ha nom / Remin, che per che foss e nom d’un re / o d’un fióm ch’l’è l’istess: a Remne e jè / (perché es po dì enca Remne), a Remne e jè e Dom…». Come si vede, pare che per Francolini la scelta di una delle due varianti fosse indifferente. E Gianni Quondamatteo, nel suo ‘Dizionario romagnolo’, riporta addirittura ‘Rémne’ come variante principale, e ‘Rémin’ come variante secondaria.
Non solo ci sono parole di questo tipo che si possono trovare in entrambe le varianti, ma ci sono parole che si trovano molto più spesso (se non sempre, o quasi sempre) nella variante senza la conservazione della penultima vocale. Ad esempio se ZÒCCOLO avesse avuto lo stesso sviluppo di TÀVOLO, oggi chi dice ‘tèvul’ direbbe anche ‘zòcul’, invece io non conosco nessuno che dica ‘zòcul’. Non escludo che, intervistando tutti coloro che sono nati e cresciuti in città, si possa trovare qualcuno che dice ‘zòcul’, ma io non ho mai sentito questa variante, e sarei quasi tentato di escluderne l’esistenza, se non fosse che ho imparato da tempo a non sbilanciarmi sugli sviluppi di queste parole nella parlata urbana. Comunque sia, la statistica è chiara: ‘tèvul’ in città è (era) frequentissimo, mentre ‘zòcul’ era assente, o quanto meno estremamente raro.
Sembra dunque che nella conservazione della penultima vocale si possano individuare solo delle tendenze generali, e non una regola che renda prevedibili gli esiti a partire dagli etimi volgari. Anche qui però dobbiamo essere cauti, perché la scienza ci insegna che, quando ci sembra che non ci sia una regola, può anche darsi che ci sia una regola più complicata di altre, e che non siamo stati ancora capaci di trovarla. Possiamo allora cercare di restringere un poco il campo, andando a vedere gli sviluppi delle parole che nel volgare avevano le terminazioni –OLO e –OLA, come TÀVOLO, TÀVOLA, ZÒCCOLO.
Alcune di queste parole in città si trovano molto frequentemente con la penultima vocale (cioè la O) conservata e ridotta a ‘u’. Abbiamo già visto il caso di ‘tèvul’ e ‘tèvula’, ma ce ne sono molte altre. Ad esempio da ÀNGIOLO, DIÀVOLO, MIRÀCOLO, SPÌGOLO, BÌGOLO, SÀNTOLO, GIOCÀTTOLO, ASPÀRGIOLO, (L)OMBRÌGIOLO, SAN BÀRTOLO, TRÀPPOLA, AMÀNDOLA, TRÌBBOLA, FRÀVOLA, SCHIÀFFOLA, si hanno solitamente gli esiti ‘ànžul’, ‘dièvul’, ‘mirècul’, ‘spìgul’, ‘bìgul’, ‘sèntul’, ‘žugàtul’, ‘spèržul’, ‘ambrìšul’, ‘San Bèrtul’, ‘tràpula’, ‘amàndula’, ‘(e) trébbula’, ‘frèvula’, ‘s-ciàfula’.
Invece da ZÒCCOLO, MÒCCOLO, FRÙFFOLO, NÒTTOLO, SCARCIÒFFOLO, ZÙFFOLO, RÙZZOLO, TRÒCCOLO, BÒZZOLO, BÒTTOLO, GIÙGGIOLA si hanno solitamente gli esiti ‘zòcle’, ‘mòcle’, ‘fróffle’, ‘nòtle’, ‘scarciòfle’, ‘zóffle’, ‘rózzle’, ‘tròcle’, ‘bòzle’, ‘bòtle’, ‘žóžžla’. E di esempi analoghi se ne trovano anche molti altri.
Come si spiegano questi diversi sviluppi? Perché la medesima terminazione, che in altri dialetti di solito ha sempre lo stesso esito, a Rimini può avere due esiti diversi? Come dicevo, si potrebbe pensare a qualche regola più complicata del solito che ci è sfuggita, ma il semplice fatto che si trovino delle oscillazioni, e che sia molto difficile trovare due riminesi che esibiscano i medesimi esiti per tutte le parole di questo tipo, dimostra che in città si sono “scontrate” due diverse tendenze, e che nessuna delle due ha avuto la forza di imporsi, sicché per alcune parole si è diffusa maggiormente la variante con la conservazione di quella che originariamente era la penultima vocale, e per altre parole si è diffusa maggiormente l’altra variante, quella senza la cialis moins cher en pharmacie vocale.
Come mai a Rimini, in città, c’erano queste due tendenze? Siamo in grado di analizzarle da un punto di vista sociale? Per rispondere a queste domande dobbiamo fare alcune considerazioni.
La prima emerge dalle interviste che ho raccolto fra gli informatori legati al mondo della marineria. Pescatori o figli di pescatori, nati e cresciuti per lo più nel Borgo Marina o sulla Sinistra del Porto (le mie ricerche sulla Destra del Porto sono meno approfondite). Ebbene, costoro sono quelli che esibiscono più spesso gli esiti con la conservazione della penultima vocale, e sono anche quelli che mostrano una maggiore “avversione” per le varianti senza la vocale. Ad esempio molte di queste persone percepiscono ‘Rémmne’ come una variante “estranea” (per non parlare di ‘Rémmni’, che da molti viene addirittura associato a luoghi lontani da Rimini, in aperta campagna, o in collina).
Oltre a ciò, dobbiamo prendere atto che le parole legate al mondo della marineria hanno più spesso di altre l’esito con la vocale conservata. Prendiamo ad esempio i nomi dei pesci e più in generale degli animali che vivono in acqua; per restare sulle parole che in origine avevano la terminazione –OLO e –OLA, possiamo ricordare ‘baràcula’, ‘móssul’, ‘trèmmul’ (plur. ‘trémmul’), ‘granzévula’, ‘linguàtula’, ‘marìdula’ da BA(T)RÀCCOLA, MÙSSOLO, TRÈMMOLO, GRANCIÉVOLA, LINGUÀTTOLA, MARÌDOLA; e ve ne sono anche altre. Ci sono poi una serie di oggetti tipicamente marinareschi, come ‘trabàcul’, ‘màscul’, ‘mèncul’, ‘pégula’, ‘réfful’, ‘sèsula’, ‘sàgula’, ‘varìgula’ da TRABÀCCOLO, MÀSCOLO, MÀNCOLO, PÉGOLA, RÌFFOLO, SÈSSOLA, SÀGGOLA, VERÌGOLA. Non manca qualche eccezione (cioè parole in cui la penultima vocale è caduta), come ‘bòble’ e ‘žòtle’, da BÒBBOLO e GIÒTTOLO, ma queste sono assai rare. In sostanza si può dire che nei termini legati alla marineria la penultima vocale si è conservata molto più spesso e più stabilmente di quanto sia avvenuto per i termini legati ad altri ambiti.
La prossima volta vedremo cosa emerge se allarghiamo il nostro orizzonte ai dintorni della città e anche a un’area più vasta.
Davide Pioggia