Pubblicato la prima volta il 20 Settembre 2018 @ 16:55
La mia generazione, nata subito dopo la seconda guerra mondiale, penso abbia ricevuto al concepimento, oltre al corredo genetico, anche tutta la voglia di ricominciare dei nostri genitori tanto che le innovazioni tecnologiche negli anni ’50 erano avvertite e apprezzate con la stessa curiosità da grandi e piccoli. I bombardamenti, le paure e le privazioni del conflitto appena conclusosi, avevano lasciato il segno anche nei nostri fratelli maggiori i quali, poi, per nostra fortuna, ci hanno consentito di averli come “istruttori” in bande in cui la differenza di età era solo un fatto gerarchico: giocando con noi loro si riappropriavano, in parte del periodo critico della loro fanciullezza.
Per questi motivi, il trascorrere del tempo nel “Borgo Marina”, lo ricordo come qualcosa di collettivo simbolicamente espresso nel rito della “fogheraccia” (che incendiavamo il 18 marzo). La vita del borgo iniziava ad animarsi alle prime luci dell’alba con il rumore delle serrande del Bar Marittimo che, ultimo a chiudere, era anche il primo ad aprire, con la signora Tosca che preparava la macchina del caffè (“ il migliore”-ripeteva sempre mia madre). La sveglia, a casa mia, era data dall’arrivo di una donna che, con la bicicletta carica di contenitori, consegnava di porta in porta il latte appena munto, proveniente dalle colline. Io, appena alzato, aspettavo impaziente si raffreddasse, perché dopo la bollitura obbligatoria contro la tubercolosi bovina e altre patologie trasmissibili all’uomo, formava uno strato di panna che mescolato a tanto zucchero creava il mio dolce preferito. Gradualmente tutto il borgo si animava: la sua bellezza era data dalle molte abitazioni adibite anche ad attività commerciali e così apriva il macellaio, l’idraulico, il riparatore di biciclette, il negozio di alimentari dell’Alba dove la “crema alba” e i “fruttini” erano il nostro obiettivo, apriva la piccola ferramenta dell’Americano, il falegname Giacomo che ci riforniva di miele delle “libere” api del Titano, utilissimo insieme al latte caldo nel combattere la tosse, il calzolaio che nel tempo libero suonava nella banda cittadina, la merceria dell’anziana Nazzarena utilizzata anche dal marito nell’arte della fotografia con quelle macchine immense che si vedono in tanti film del primo novecento. Alla fine della giornata, tutti questi e altri personaggi rimanevano a chiacchierare sul marciapiede davanti alle porte nelle serate estive, mentre noi bambini inventavamo giochi o andavamo a rubare le più buone albicocche del quartiere spingendoci a volte, cosa molto grave e rischiosa, fino al giardino dell’ottico Severi.
Sull’asfalto della via dei Mille c’erano ancora dei vecchi binari del trenino che creavano spesso difficoltà ai carretti trainati da cavalli e ai molti ciclisti. Ricordo che spesso anche il giornalaio “Rodriguez”, noto pugile, quando arrivava tutte le mattine con la sua edicola mobile accompagnato dal suo cane, incontrava degli ostacoli. Questi poi diventavano pericolosissimi al momento del passaggio settimanale, a velocità pazzesca, di un personaggio con cappelli lunghi, senza gli arti inferiori, su un carrettino trainato da una muta di cani latranti mentre il conducente, urlando, chiedeva oltre che “pistaaa” anche del pane, come combustibile per le sue bestie. La via era autosufficiente anche dal punto di vista sanitario con un ottimo medico che credo non avesse mai ricevuto un vero onorario dalla mia famiglia, in assenza del Servizio sanitario nazionale. Ricordo però che agiva anche da pronto soccorso, giorno e notte, come quando mio fratello, rincorso come al solito da mia mamma perché non voleva studiare, si tagliò in modo grave un polso rompendo una vetrata e che io osservai, con il cinismo del bravo bambino, mentre piangente veniva ricucito.
Numerose erano le famiglie di marinai: le sorelle Vasi lavoravano alla riparazione delle vele mentre sul marciapiede opposto un vecchio marinaio, divenuto timoroso alla sola visione del mare in tempesta, si limitava a riparare le reti, unico legame che voleva mantenere con le onde. Le tragedie del mare avevano colpito anche famiglie del borgo e il loro ricordo era sempre presente in tutti gli abitanti della contrada. Ogni volta che il mare era in tempesta, si avvertiva nell’aria la paura delle donne in attesa del rientro delle barche, e spesso paragonavano il lavoro del marinaio a quello più tranquillo e sempre invidiato del ferroviere. La via negli anni si trovò spesso testimone di avvenimenti per noi molto importanti quali il passaggio del Giro d’Italia con numerosi venditori al seguito che spesso decidevano di fermarsi per promuovere le loro vendite alloggiando nella locanda di mio nonno.
E ricordo anche il terrore nel quale fummo tutti coinvolti la sera che esplose la cisterna di benzina sotto il ponte della “Barafonda”, ogni volta che i soccorritori con ogni mezzo disponibile, attraversavano veloci per raggiungere il vecchio e vicino ospedale. Tutti i funerali della Parrocchie vicine si snodavano in corteo sempre preceduto, purtroppo, dai bambini dell’Orfanotrofio, accompagnati dalle Suore dai grandi capelli bianchi e chiudeva la fila il cugino di mio nonno, capostazione a riposo, Nicolò che, vestito sempre di nero e con ampio cappello e bicicletta al seguito, approfittava dell’occasione per recarsi in compagnia al cimitero alla tomba del figlio Luigi ucciso in piazza Giulio Cesare (se ricordo bene) con gli altri due martiri della Resistenza. Naturalmente le serrande dei negozi venivano abbassate ogni volta che passava un morto, creando quel momento di pausa che, attualmente, viene solo concesso alle persone importanti. Raramente mi era consentito di attraversare la strada da un marciapiede all’altro, ma ricordo che la prima volta accadde per fare festa insieme agli altri bambini del rione, al passaggio del nuovo e giovane cappellano di San Nicolò, Don Oreste Benzi, il quale rimase nella nostra parrocchia il tempo necessario per farci capire che quando uno è convinto di un ‘idea la deve portare avanti contro tutto e tutti. Per merito del don condivido tante sue battaglie per aiutare la povera gente, gli zingari, le adozioni, l’handicap, il recupero dei tossicodipendenti anche se, purtroppo, su come risolvere il problema droga e aborto sono stato costretto a dissentire da lui. In quel periodo partorire in casa era una cosa ancora naturale e il borgo era provvisto anche di un’ottima levatrice che ci ha fatto sentire uniti da un uguale ombelico.
La presenza delle “Scuole Marittime” dirette dal Comandante Piccinini ci permettevano anche di arrampicarci, non visti dal bidello, sull’albero da nave a vela di grandezza naturale posizionato nel giardino della scuola. Sul suo punto più alto si aprivano nuovi orizzonti immaginando di essere sulla nave scuola “Vespucci”, ma purtroppo rientravamo ben presto nella realtà alla vista di Mondo, il bidello che ci aspettava alla discesa. Lo sport preferito, dopo i combattimenti con fionde, frecce e “stupacci” fatti da coni di carta e sparati dalle “cerbottane”, era il gioco del “cirul-venga”, una sorta di baseball romagnolo fatto con un bastone di scopa che colpiva un lato di un bastoncino posizionato in bilico su un sasso che alzandosi in aria veniva poi nuovamente colpito e lanciato lontano.
Naturalmente anche il gioco del pallone aveva creato dei buoni atleti che seguirono nella Rimini Calcio altri borghigiani del periodo prebellico e tutti noi fummo coinvolti, con entusiasmo, , quando Giorgino Betti fu chiamato nel vivaio dell’Inter. Come ogni antico rione che si rispetti, anche noi avevamo il nostro “fantasma”; venni a sapere della sua esistenza perché, quando le poche camere da letto della trattoria erano tutte occupate, cercavamo alloggio per i clienti nelle case vicine. In una di queste andò a dormire un viaggiatore il quale, ignaro di tale presenza, per tutta la notte sentì oggetti muoversi, lenzuola che venivano tirate da tutte le parti e, alla fine, fu costretto a rinunciare al riposo. Fino a poco tempo fa, pensavo che questa storia mi venisse raccontata da mia madre e dalle zie per tenermi tranquillo ma, parlando con il vecchio inquilino Angelo Babbi, tutto fu confermato, rinvigorendo il mistero, con l’affermare che proprio in quella stanza non si poteva tenere niente, neanche il “vaso” da notte, altrimenti si spostava da solo. In quel periodo i matrimoni, come i funerali, venivano vissuti in modo collettivo e molti chiedevano di poter utilizzare la sala della mia trattoria per il rinfresco. L’organizzazione veniva gestita da una famosa pasticceria del centro storico che portava tutto il necessario e noi bambini rimanevamo vicino alla cucina dove in un enorme pentolone, si preparava la vera cioccolata, densa, fumante, che noi sperimentavamo per primi inzuppandoci dentro ciambella e biscotti. Non c’è bisogno di ricordare che in quelle occasioni mi ritrovavo sempre con tanti amici vicino!
Il pettegolezzo, come in tutte le piccole comunità, era presente anche da noi: era molto difficile mantenere certi segreti nell’ambito della famiglia dove, ad esempio, una lite tra parenti si propagava in pochi secondi lungo tutta la via, figuriamoci quando un gruppo di giovani, compilando una schedina del totocalcio, fecero Tredici, Si sentì un boato uscire dalle finestre delle case dei fortunati che al contrario della recente miliardaria vincita nel Borgo San Giovanni, furono in questo modo, subito individuati, tanto che dopo pochi giorni fu noleggiata una corriera per portare tutti i maschi adulti del Bar Marittimo fino al Ristorante “da Casali” di Cesena a spese naturalmente dei noti vincitori milionari!
Sergio Giordano