“Un gnè gnìnt pér e’ chèn…”

0
169

Pubblicato la prima volta il 10 Agosto 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “Un gnè gnìnt pér e’ chèn…”

Fame, sempre la fame: quella che le poche volte in cui si poteva mangiare del pollo, ogni pezzo “us pluchèva” lasciando l’osso nudo, senza un filo di carne attorno; anzi c’era chi schiacciava coi denti quel misero ossicino per succhiare il sangue rappreso al suo interno, tanto che al cane rimaneva ben poco, perché allora il cane mangiava solo i resti e quando non rimaneva niente (il più delle volte) si riempiva d’acqua il tegame di cottura del pollo affinchè quell’acqua potesse trattenerne il sapore e si inzuppavano pezzi di pane raffermo. I cani più intelligenti “rimediavano” in giro dando la caccia ad animali più piccoli.

Certamente era un’epoca in cui non si potevano tenere cibi sul davanzale per non farseli rubare dai cani (e non solo).

Eppoi allora le galline erano veramente buone – la saraghina ad campagna – diceva la Elsa quando le vedeva razzolare nell’aia – con la carne scura, tosta, asciutta… “na cmè i pól d’alevamènt, chi pèr ad gäma, gunfièd, sa gli òsi cl’is staca prima da coş-sé”.
E quel pollo si mangiava solo nei giorni di festa, si comprava vivo ed il privilegio di tirargli il collo (sì di animalisti o vegetariani allora non ce n’erano, o perlomeno non ne ho mai conosciuti) spettava al più abile, a chi aveva la mano più ferma e la forza nel braccio.. era un’operazione che andava risolta con tempismo e precisione, un’azione maldestra avrebbe, non tanto fatto soffrire il povero animalino, chè non era quella la preoccupazione ma annerito le carni diffondendo il sangue sotto pelle. Questo compito, a casa nostra, spettava alla nonna, una dona che “l’an aveva paura ad gnìnt”, rimasta vedova a quarantotto anni, di giorno lavorava alla fornace (sì, quella dei mattoni) e, nei “ritagli di tempo “, come si diceva allora “andava a servizo “tal chèsi di sgnur”.

Come ricordavo in un altro post, andava a “rimediare” le erbe che raccoglieva nel grembiule ripiegato e non tornava mai a casa a mani vuote perché, diceva, “la roba cl’è ti chémp l’è di dio e di sènt”, ovvero non aveva padroni per cui lei se ne serviva; questo suo spirito le aveva facilitato i rapporti coi polli. A servizio presso una famiglia che disponeva del pollaio, la nonna dava ogni tanto uno scricchetto sul collo del pennuto che, ferito, abbassava la testa, al che la nonna si recava dalla padrona di casa “sgnora è pòl l’ha ciap la malattia…”: la signora si raccomandava “per carità Marcellina, prima che la malattia si diffonda… portalo via”…e così il pollo arrivava nella cucina della nonna in un giorno non di festa, un vero miracolo terreno.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.