“Te l’è vuluda la biciclèta…”

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Pubblicato la prima volta il 21 Marzo 2018 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “Te l’è vuluda la biciclèta… adès u täca pédalè”

Hai voluto la bicicletta… adesso tevi darti da fare“: un modo di dire noto ed ancora diffuso riferito a chi ha bramato un incarico e/o un obiettivo per cui, avendolo raggiunto, deve agire di conseguenza…. la categoria presa di mira, in prevalenza, è quella dei politici.. Al di là della notorietà dell’espressione preme evidenziare il richiamo alla bicicletta che, soprattutto in passato quando non era facile avere mezzi di trasporto, appariva già un notevole vantaggio se non un privilegio.
Negli anni ’50 era il mezzo di trasporto per eccellenza, custodito dentro casa, nascosto, anzi riparato dietro il comò o la porta, protetto da un panno. Per tutti noi di quell’epoca, il film di De Sica “Ladri di biciclette” non era una storia ma un documentario di vita vissuta. Chi possedeva la bicicletta veniva già maggiormente considerato, aveva qualcosa in più dello stretto necessario. Era autonomo negli spostamenti. Nessuna distanza era impossibile. Le donne vi trasportavano le borse della spesa, quelle larghe e rigide di paglia e i bambini (di tutte le età) grazie ad un sellino anteriore. Non c’era bambino che non si fosse intrappolato il piede tra i raggi della ruota. Gli uomini trasportavano di tutto, dagli attrezzi in spalla o appoggiati sul manubrio alle donne sedute sul cannone. E si portava dal meccanico solo per guasti eccezionali chè i piccoli venivano riparati in casa. In un angolo si allestiva una sorta di mini officina dove venivano riparate le forature (ho ciap un ciód…), catino con acqua per trovare il buco, tubetto del mastice, una vecchia cameradaria per rimediare la pezza. Quando era il freno a saltare, non erano poche le volte che si rotolava il filo al manubrio lasciandone in funzione solo uno…(stà tènti chè casc in avènti..). Quelli a stipendio fisso la compravano di prima mano (la Vicini, la Bianchi..), gli altri si accontentavano di costruirle smontando e rimontando i pezzi di quelle vecchie scovati dalla “Minghina”, una sorta di emporio (strazèr – fèr vèç) dei poveri dove si comprava e vendeva di tutto. Talmente diffuso e necessario era il mezzo, che il governo di allora aveva tassato la bicicletta con un “bollo” che veniva esposto sul manubrio dentro un custodia tubolare di gomma.

Anche quello era rischio, molti, infatti, “rimediavano” la bicicletta ma non i contanti per il bollo e si arrangiavano rubandolo.

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