Pubblicato la prima volta il 21 Agosto 2016 @ 00:00
“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “T’an é e’ sangue”
Non ti scorre sangue a sufficienza era una valutazione che la mamma faceva ogni volta che mi lamentavo, a suo giudizio senza valida motivazione, di sentire freddo. Probabilmente era una espressione popolare per indicare uno stato anemico, di debolezza o quel colorito pallidino tipico di quelli “secchi” (magri) e che, spesso, veniva preceduto da un “misùrtè la fèvra”.
L’altro motivo per cui si poteva avere la sensazione del freddo si ricollega al vino. Sì, al vino che, notoriamente nella “nostra” cultura, fa buon sangue e, sicuramente, aumenta, perlomeno così ci appare, il calore del corpo: “bèv un gozlè ad vèin che ta t’arschèld”. Fatta eccezione per gli “imbriagùn”, il vino non era considerato un vizio ma un parte sostanziale del nutrimento, anche perchè a quel tempo non si poteva concepire che non fosse spremitura d’uva. Prevalentemente rosso, anzi “nero” come si diceva, andava a nobilitare il pasto delle feste. Ricordo che in vista del Natale si “metteva via” il vino speciale – “e’ pió bòn” – quello che proveniva con certezza dai contadini e che andava consumato in parti uguali, secondo il detto “al magnèdi un impòrta ma al bevùdi pèri” (il cibo quel che c’è ma del vino ognuno la sua parte).
“Quand è vèin l’è bòn”, anche un “pzùlèin ad furmaj” o “dó radécc slà zväla e la pièda” diventano un pasto da re. Lo diceva la mamma che negli anni della gioventù, quando si lavorava nei campi, vino non ce n’era. il pranzo erano “radisèin s’un pó ad sèl” annaffiati con “l’aséda” allungata con acqua. Il vino “per tutti i giorni” lo andavo a comprare io, nella cantina della Gigia in via Cairoli o in quella dei Reduci in piazza Malatesta. Un “bucion” od un fiasco da due litri che, che tenevo stretto tra le braccia e che doveva bastare per due giorni o, quando scarseggiavano le risorse, un litro od anche mezzo. Ricordo bene quei locali avvolti nel fumo dei sigari e delle sigarette “nazionali”, le voci sempre alterate che provenivano dai tavoli e che si mescolavano col rumore sordo delle carte che sbattevano sul piano. Ed il profumo del vino che usciva dalla gomma immersa nella damigiana, dopo che l’oste aveva succhiato l’aria che ostruiva la sonda. E quei cartelli in bella vista sopra il bancone, come “Oggi non si fa credito” e quello, più poetico, “Il sole risplende, buon vino si vende, allegri entrate, di politica non parlate ma prima di uscire pagate!”.
La tinozza coi lupini che venivano prelevati col bicchiere di latta legato con la corda, i “cartocci” di pane e mortadella di chi, nella cantina, consumava “la merenda” che poi, integrata col vino, diventava il pasto serale. Ecco sì i bambini entravano nella cantina per quella commissione ma una donna era raro trovarla lì che “na dòna tramèz ch’j òmnè.. l’an stà bèin”.. insomma era considerata poco seria o una “persa” “na parsnèina”. E quando il vino aveva troppi gradi o s’era inacidito “l’è tróp fòrt”, si beveva “d’aquèd”.. chè spesso, era un piccolo stratagemma per farlo durare di più. Perché, ribadisco, il vino era considerato un alimento di pregio e, in quanto tale costoso e non quindi, per tutte le tasche e per tutte le occasioni. Non a caso di chi “aveva alzato troppo il gomito” si diceva “l’ha fat na gata da comuniòun”, ovvero un eccesso ammissibile solo in situazioni speciali.
E per questo anche in molte case di città ci si arrangiava con dei surrogati. La nonna, rimediata l’uva nera nei campi che circondavano il centro città, procedeva con la spremitura, dando vita alla “birèla” od “aquadézza” che prendeva un sapore dolciastro molto gradito anche ai bambini, anche se, ad esagerare, per gli zuccheri che sviluppava, si prendeva facilmente la “cagarèla”. Perché sul vino non c’era un veto assoluto o pregiudiziale per i bambini. Più che piccola mi addormentavo con due dita di vino in un bicchiere appoggiato sul comodino perché se mi svegliamo di notte col “rusghino” in gola, quel liquido aspro era l’unico che me lo faceva passare. Ma tutti quelli della mia generazione ricordano bene le fragoline immerse nel vino ed addolcite con lo zucchero, la velocità con cui si mangiava il frutto per poi gustare il vino dolce sorseggiandolo lentamente.
E le castagne arrostite sulla piana della stufa, accompagnate dal vin brulè?