San Gaudenzo, un santo senza pace

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Foto comparativa delle due "versioni" del monumento

Pubblicato la prima volta il 23 Settembre 2016 @ 11:02

Foto comparativa delle due “versioni” del monumento

Forse non tutti sanno che il santo patrono di Rimini, San Gaudenzo, lo è anche di altre città: di Ostra (l’antica Montalboddo), in provincia di Ancona; di Garaguso, comune in provincia di Matera, e di Montefabbri, frazione del comune di Vallefoglia, in provincia di Pesaro e Urbino.

Vita travagliata quella del nostro santo martire, così in vita come in morte: strenuo difensore dell’ortodossia cristiana contro le teorie ariane, venne dapprima arrestato, ed in seguito martirizzato da un gruppo di eretici che strappatolo dalle mani dei magistrati incaricati di giudicarlo lo percossero e lapidarono a morte il 14 ottobre del 360, in una zona acquitrinosa fuori porta romana (l’arco d’Augusto), chiamata Lacus Martyrum (donde l’attuale Lagomaggio). Le spoglie vennero sepolte in una fossa, di cui poi si perse traccia, fino ad essere miracolosamente rinvenute attorno al 430 da Abortina, una donna originaria di Ravenna, cieca dalla nascita, alla quale era apparso un angelo che le aveva ordinato, se avesse voluto recuperare la vista, di andare a Rimini e recarsi presso la chiesa di San Gaudenzo per avvertire l’abate di dare degna sepoltura alle spoglie dei santi Gaudenzo, Valentino e Vittore che giacevano dimenticate sul fondo di un pozzo, coperto da una lastra di marmo, all’interno della chiesa stessa. La donna candidamente fece presente che, essendo cieca, le sarebbe stato impossibile viaggiare fino a Rimini e l’angelo, per tutta risposta – quasi in ictu oculi ci raccontano le cronache (in un battito di ciglia, diremmo noi) – la trasportò a Rimini, nella chiesa di San Gaudenzo. La donna riacquistò la vista, tra le lodi a Dio dei presenti, solo quando vennero individuate ed estratte le sante spoglie dal pozzo, poi alloggiate in un grande sarcofago di pietra dietro l’altare maggiore. Questo sarcofago si può ancora osservare al centro del cortile della Curia riminese, a fianco del Tempio Malatestiano.

Il santuario riminese – nel frattempo abbattuto e ricostruito nel corso di varie vicende belliche – non bastò a proteggere ciò che rimaneva del santo: nel 590 le sacre reliquie vennero sottratte alla devozione dei riminesi e portate a Senigallia, dove furono solennemente accolte dal vescovo della città, Sigismondo, che le pose in un altro sarcofago di pietra, attualmente ospitato nell’aula capitolare del Duomo senigalliese. In seguito, alle porte di Senigallia venne fondato un complesso abbaziale intitolato a San Gaudenzo, dove ancora una volta furono trasferite le spoglie del santo. Che evidentemente non erano destinate ad avere la pace che ci si sarebbe aspettati, se nel 1520 (così vuole la tradizione, ma probabilmente almeno un secolo prima) vennero nuovamente sottratte dalla cripta della chiesa, nel frattempo caduta in rovina, e trasportate a Montalboddo, l’attuale Ostra, nella chiesa di San Francesco dei Minori Conventuali, dove ebbero finalmente pace. O quasi. Perché nel 1702 il cardinal Gaspare di Carpegna donò a don Giuseppe Del Mastro, parroco della chiesa di san Nicola di Myra a Garaguso, un osso della gamba («sacro osso crurale»), mentre nel 1794 il vescovo di Tricarico (in provincia di Matera), Fortunato Pinto, donò alla stessa parrocchia un’ulteriore reliquia di san Gaudenzo, questa volta il braccio.

Dopo tutto questo verrebbe da pensare che a Rimini del santo patrono non siano rimaste tracce materiali, ma così non è: il cranio del santo è fortunosamente sfuggito al trasferimento verso Senigallia, ed è attualmente ospitato in un prezioso reliquiario d’argento, donato nel 1857 da Pio IX alla Cattedrale di Rimini.

Anche il Santuario che ebbe in custodia – almeno fino ad un certo punto – le ossa del martire efesino ebbe vita assai travagliata. Nato come chiesa della Confessione, nel luogo di un precedente tempio dedicato a Giove, fin dal X secolo fu monastero benedettino, alle dirette dipendenze del Vescovo. Accresciutosi in splendore nel corso dei secoli, nei secoli XV e XVI in virtù anche dei ricchi benefici di cui godeva divenne Commenda di importanti personaggi, alcuni dei quali appartenenti alla famiglia Malatesta, come Valerio (almeno dal 1464), protonotario Apostolico, e Giovanni (dal 1470, anno della morte di Valerio, al 1499), entrambi figli di Sigismondo Pandolfo. Subì gravi danni nel 1469 durante l’assedio che la città sostenne contro l’esercito della Chiesa. Nel 1641 venne ceduta dall’allora Commendatario ai monaci dell’ordine Cistercense, che la riportarono all’antico splendore dopo decenni di rovinosa decadenza. Con la soppressione degli ordini religiosi, nel 1797, la chiesa ed il monastero vennero chiusi, ed in una alternanza di aperture e nuove chiusure si arrivò al maggio 1812, quando divenne proprietà della nobildonna Teresa Sartoni, che nel giugno seguente fece iniziare i lavori di demolizione per costruirvi una villa suburbana. Fortunatamente, il parroco della vicina chiesa di San Giovanni Battista si introdusse tra le macerie e portò in salvo le sacre reliquie e quanto poté dell’antico santuario, del quale, al giorno d’oggi, nulla resta – o quasi – a testimoniare le antiche glorie passate.

In conclusione raccontiamo la curiosa anedottica riguardante la statua in bronzo dedicata a papa Camillo Borghese (Paolo V), realizzata nel 1614 nella centralissima piazza Cavour da Nicolas Cordier e Sebastiano Sebastiani e dedicata a una figura legata intimamente ai destini della città (all’epoca compresa nello Stato Pontificio) e del clero riminese.

Nel 1797, per evitarne la probabile distruzione legata all’avanzata delle truppe napoleoniche avverse al papa, attraverso alcuni accorgimenti simbolici il monumento venne trasformato dai riminesi in una statua dedicata a San Gaudenzo, patrono della città. Come si deduce dalla comparazione delle immagini di epoca differente qui allegate

, il copricapo venne trasformato da tiara papale a mitra vescovile, nella mano sinistra gli venne inserito il bastone pastorale al posto delle chiavi di San Pietro e la mano destra atteggiata a gesto benedicente. Bisognerà attendere il profondo restauro del 1936 per rivedere l’iconografia pontificia originaria pienamente ristabilita e l’inverno 2003/2004, occasione dell’ultimo intervento conservativo, per scoprire alcuni dettagli inediti come la data “Anno XVI dell’Era Fascista” sulla tiara, il marchio della fonderia sul collo della figura o alcune pregevoli tracce di doratura sul broccato.

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