Pubblicato la prima volta il 15 Agosto 2016 @ 10:07
Rimax osservava le agili dita del bagnino frugare in maniera esperta nelle interiora delle piccole seppie, evitando con cura di toccare la sacca dell’inchiostro, mentre la eviscerava con l’aiuto di un affilato coltello. Le interiora finivano a terra sulle pagine aperte del giornale del giorno prima. Sulle colonne si rincorrevano come al solito notizie sull’andamento della guerra: “Persa e riconquistata quota 122” e “Attesa, auspicata da più parti, di una imponente offensiva per il 18 agosto, in occasione del compleanno dell’Imperatore Francesco Giuseppe. I ciuffetti dei tentacoli finivano direttamente nella pentola e i seppiolini tagliati a listarelle in una bacinella in due dita di acqua di mare. Le conchiglie calcaree che componevano lo scheletro, i così detti ossi di seppia, finivano sulla sabbia a cuocersi sotto il rovente sole di agosto e dove bambini e bagnanti avrebbero fatto a gara per impossessarsene e riportare a casa quella candida struttura che sembrava appartenere ad un mostriciattolo alieno.
All’ombra del cannaticcio il gatto se ne stava beatamente disteso prestando svogliatamente orecchio ai discorsi degli uomini seduti in circolo che osservavano il lavoro del bagnino. Strano a dirsi, per una volta non avvertiva gli stimoli della fame, nonostante l’odore del pesce lavorato giungesse prepotentemente alle sue narici. Una strana inquietudine lo pervadeva serrandogli lo stomaco in una morsa. Lui cercava di non farci caso, in fondo sapeva benissimo di cosa si trattava. Però si era ripromesso di combattere il suo istinto a saltare via, fuggendo da quell’epoca, ormai si era abituato a quel genere di cose e sapeva perfettamente, quando fosse arrivato il momento del pericolo, dove andare per non correrne alcuno. Eppure, pur conoscendo il futuro e cosa sarebbe successo di lì a breve, il suo stomaco rimaneva rigido e teso, come in attesa.
Continuava ad osservare gli scarti del pesce che finivano con un suono viscido sulle pagine del giornale, sollevando uno sciame di nere mosche ronzanti.
Attratto da un titolo scritto a grandi caratteri Rimax scostò con la zampa le interiora liberando completamente il trafiletto che aveva catturato la sua attenzione.
Dite che i gatti non sanno leggere? Certo! Per i gatti comuni è sicuramente così ma Rimax non era un gatto comune, proprio per niente. Lui era immortale. Dopo tutto quel tempo passato ad osservare amanuensi, scribacchini, miniaturisti, poeti, giornalisti e scrittori chi non sarebbe riuscito ad impadronirsi del linguaggio scritto?
“Domani è Ferragosto!” stava scritto a grandi lettere a sinistra sotto il nome del giornale, e seguiva la storia sul significato del nome e dell’origine di quella festa. “Feriae Augusti: le vacanze dell’imperatore Augusto”.
“Così, accadrà domani” pensò il gatto e non riuscì a reprimere un brivido di apprensione.
Il mercante, seduto lì a fianco, sgranava i piselli. Vestito inappuntabilmente e completamente di bianco, sotto il sole cocente, si era assoggettato ben volentieri a quel compito. Dal sacco di juta ai suoi piedi prendeva i baccelli e premeva i bordi fra pollice e indice fino a che questi non si aprivano con un rumore soffocato. Quindi infilava nel baccello il pollice e sgranava i piselli che finivano rimbalzando, con un suono musicale, nella larga bacinella di metallo che aveva posto sulle ginocchia.
Aveva insistito a lungo per svolgere quell’umile lavoro, si faceva un punto d’onore nel rendersi utile invece che presentarsi all’ultimo momento davanti al piatto fumante. Anche se alla resa dei conti era lui a pagare tutte le vettovaglie.
Si interruppe un attimo e si asciugò la faccia con un grosso fazzolettone che trasse dalla tasca dei pantaloni di lino. Adocchiò il cestino di vimini appoggiato a lato della soglia del capanno da cui spuntava il collo di un fiasco e il bagnino dovette interpretare correttamente il suo sguardo perché interruppe il suo lavoro e preso e stappato il fiasco, riempì del generoso Sangiovese locale i bicchieri di entrambi.
Qualche ora più tardi il fuoco agonizzava sotto il grosso paiolo appoggiato sulla grata di ferro adagiata sopra la buca scavata nella sabbia. Nel poco liquido bruno rossiccio rimasto sul fondo occhieggiava qualche rado pezzetto di seppia e qualche pisello che il mestolo non era riuscito a catturare. La serva aveva già compiuto diversi viaggi fra la spiaggia ed il villino retrostante, ogni volta tornando con un fiasco fresco di cantina. La seppia coi piselli, fortemente pepata, alla maniera dei pescatori locali, aiutava a mandar giù frequenti sorsate del fresco vino rosso.
– Sto ancora aspettando una comunicazione definitiva – disse il mercante – rispondendo all’azzimato gentiluomo seduto alla sua sinistra all’ombra del cannaticcio – ma effettivamente qualcosa sembra essersi mosso.
– Ne deduco che abbiano liberato la nave – rispose il conte osservandolo attraverso il monocolo.
– Tutt’altro.
– Ma allora, come farete? Non riuscirete mai a far ripartire la nave e a tornare in possesso del carico! –
– Ho ricevuto un telegramma proprio stamattina – riprese il commendatore – che mi comunica che la Commissione per le Prede ha finalmente ratificato il sequestro.
– Ah bene! Quindi tutto si è risolto per il meglio e la nave ora è italiana!
Il commendatore sbuffò e scosse il fiasco cercando di capire dal rumore prodotto, la paglia impediva di scorgere il livello, quanto vino ancora contenesse. Lo sciacquio prodotto non parve soddisfarlo e alzò la mano verso la serva perché andasse a prendere un fiasco nuovo, quindi si rivolse al giornalista, il terzo commensale, che non era al corrente dei fatti, e gli spiegò:
– Il bastimento, il vapore austriaco Ambra, allo scoppio della guerra si trovava agli armeggi nel porto di Massaua, possesso coloniale italiano, ed era stato immediatamente sequestrato assieme a tutto il carico – Il commendatore sbuffò – e sebbene tutto ciò che trasportava il vapore fosse mio ho dovuto sottostare alla trafila legale attraverso l’appositamente costituita Commissione delle Prede e attendere che il sequestro venisse ratificato. Perché certe azioni, pur sparandoci vicendevolmente addosso, vanno rispettate! E intanto il mio capitale è fermo da più di un anno in un porto africano!
– Suvvia – lo blandì il conte – non è un carico di sete quello che stavate importando? Un prodotto che non passerà mai di moda. Avrete modo di rifarvi, vedrete.
– Ah, tacete! Voi non immaginate nemmeno quanto mi verrà a costare il mantenimento del carico, prima che la guerra sia terminata! Sarò ridotto in rovina!
– Ma le balle di seta mi pare non abbiano un particolare bisogno di attenzioni – intervenne il giornalista.
Il Commendatore scosse la testa, sconsolato – l’Ambra non trasporta solo seta. Avevo appena acquistato e fatto salire a bordo sei elefanti!
– Elefanti?
– Sì, destinati a un caravanserraglio di Vienna. Cosa me ne farò adesso?
Strane cose succedevano in guerra, cose stupide che andavano ben oltre la stupidità stessa di una guerra. Rimax osservò i tre uomini seduti sotto il cannaticcio che li proteggeva dal sole: rappresentanti di quella borghesia che mandava con noncuranza al fronte il fior fiore della gioventù del paese pur di mantenere intatti i loro privilegi e procacciare il maggior profitto possibile. Che si rammaricava per la spesa di mantenimento di sei elefanti chiusi nella stiva di una nave ma non faceva una piega davanti al macello quotidiano che avveniva sul Carso.
Appena più in là il bagnino, dopo aver preparato il pranzo ai Signori, terminava gli avanzi allungando di frequente pezzetti di pesce al gatto. Osservava anche lui, di soppiatto, i tre commensali, cercando di non far trasparire i suoi veri sentimenti. Aveva due figli nelle trincee dell’Isonzo che non vedeva da mesi, mentre i figli di coloro per cui aveva cucinato in quel momento oziavano sulla riva del mare o corteggiavano le signorine dell’alta società nelle eleganti divise da ufficialetti dislocati nei vari ministeri. “Elefanti! pensò ancora Rimax, e sospirò. Sapeva che quattro persone sarebbero morte l’indomani, e per un attimo sperò che la morte non colpisse quel bagnino, padre di due soldati da cui da un mese non aveva più notizie.
Poi era arrivata la serva, direttamente dal villino, con la cuccuma fumante e le chicchere di porcellana. I discorsi erano lentamente scivolati dalla guerra alle misere condizioni economiche che il conflitto aveva innescato e in cui versava la società locale. Il giornalista aveva sorriso sotti i baffi nel sentire gli altri due lamentarsi delle ristrettezze e contemporaneamente accendere grossi sigari di importazione. Anche il gatto, sornione, sembrava pensarla come lui. Annusava l’aria pervasa dal fumo aromatico e scuoteva la testa, infastidito. Il mondo, il giornalista lo sapeva bene, continuava ad essere profondamente diviso in caste.
Il conte ed il mercante, intanto, erano passati a parlare del terremoto che aveva colpito la città qualche mese prima, responsabile, secondo loro, dello scarso numero di bagnanti presenti in città.
Misero al corrente il giornalista delle due scosse di terremoto, susseguitesi una ad un mese esatto dall’altra a maggio e poi a giugno. E di come il conte, fautore del proverbio non c’è due senza tre, si fosse traferito a luglio in un’altra città per evitare una scossa che poi non si era verificata, motivo per il quale da allora veniva dileggiato bonariamente da tutti gli amici.
– Tutte storie! – bofonchiò il conte fra i denti – avevo degli interessi al Nord che non potevo assolutamente procrastinare, ecco perché mi sono allontanato! E comunque non sono stato il solo, mezza riviera si è svuotata dalla sera alla mattina – aggiunse contraddicendo le sue ultime parole – Anche i miei inquilini sono fuggiti!
– Avevo dimenticato i suoi inquilini! – intervenne il mercante – che coppia strana! Ma non più strana della descrizione che il suo giornale – e rivolse una strizzatina d’occhi al giornalista – ne fa sulle sue pagine. Conservo ancora il ritaglio di giornale del mese scorso – e, tolto di tasca un portafoglio ne estrasse un pezzetto di carta ripiegato più volte. – Ah, voi giornalisti! Sapete bene che parole usare quando volete dire e allo stesso tempo non dire – e cominciò a leggere:
“La ventottenne Ida Di Marzo, venditrice ambulante di carezze ieri sera sulla pubblica via ha esploso un colpo di rivoltella contro il suo sfruttatore, Mario Lorenzo Bottini, uccidendolo all’istante. La donna è stata subito trasferita nelle carceri di Milano, accusata di omicidio”.
– Venditrice ambulante di carezze, che maniera delicata di descrivere chi professa il mestiere più antico del mondo! Ah, voi giornalisti siete impagabili! – ridacchiò riponendo nuovamente il ritaglio nel portafoglio.
Il gatto, al sentire nominare i due, aveva drizzato le orecchie. Milano, dunque. Era in quella città che i due si erano trasferiti dopo la vacanza a Rimini durante il quale Rimax aveva conosciuto la coppia. In effetti il termine vacanza era esatto quanto le parole che il giornale aveva usato per descrivere la professione della donna che adescava i clienti lungo i viali della marina o ammiccava agli uomini sorseggiando un bicchierino di assenzio seduta ai tavolini della Pagoda Cinese. Rimax ricordava una persona docile e affettuosa che mal si accompagnava a quell’uomo irascibile e violento. E’ proprio vero che gli opposti si attraggono, pensò, non per la prima volta. Erano scappati in fretta e furia, come molti altri bagnanti del resto, dopo la scossa di terremoto in giuigno che aveva lesionato diversi edifici pur non provocando vittime. Ma una volta a Milano la misura doveva essersi colmata e la donna aveva reagito violentemente. Ah, questi umani!
La mattina dopo la spiaggia si popolò ben presto di bagnanti. Vele bianche sul mare, bimbi vestiti da marinaretti che giocavano sulla sabbia, bagnanti a passeggio lungo la riva in accappatoio e ombrellino parasole. Man mano che il momento si faceva più vicino Rimax sentiva le viscere attorcigliarsi sempre di più e la voglia, la frenesia, l’impellenza di allontanarsi in fretta da lì, farsi sempre più potente. Si tenne all’aperto, aggirandosi nervosamente sulla sabbia, lontano dai capanni.
La scossa, quando arrivò, fu preceduta da un prolungato, fortissimo boato che fece alzare in volo gabbiani e piccioni. Per molti secondi il movimento ondulatorio continuò facendogli salire lo stomaco in gola e lasciandogli le viscere come fossero immerse in acqua gelida. Al rombo si unirono le urla disperate della gente che era caduta in ginocchio o scappava in tutte le direzioni, senza una meta. Il rumore dei muri che crollavano era sovrastato da quello, più acuto, dei coppi che scrosciavano giù dai tetti. In ogni direzione si alzava un polverone che ben presto nascose alla vista tutta la città.
Rimax aveva le budella attorcigliate e teneva la coda fra le gambe e le orecchie appiattite sul cranio. Nemmeno si accorse dei miagolii disperati che emetteva istintivamente accompagnando le urla della gente. Aveva una paura tremenda ma aveva voluto essere presente ad ogni costo e resistette all’impulso di saltare nel tempo, lontano dal terremoto.
La scossa, dopo molti secondi, finì e pian piano si affievolirono anche i rumori dei crolli che si fecero via via più sporadici fino a terminare del tutto, lasciando posto a richiami disperati e alle richieste di aiuto.
Erano le 9.05 quando la terra tremò raggiungendo i 5.8° della scala Mercalli. Alle 11.15 sarebbe seguita una seconda scossa, ugualmente forte ma più breve ed una terza, lieve, dopo mezzogiorno, seguite dalla miriade di scosse dello sciame sismico che avrebbero accompagnato la città fino alla fine dell’estate.
La gente si precipitò nelle piazze e nei luoghi aperti in preda alla paura. Molti degli edifici già lesionati dalle precedenti scosse crollarono definitivamente, le ciminiere delle fabbriche e quasi tutti i campanili delle chiese, danneggiati, restavano in piedi per miracolo. Gli edifici più vecchi, situati nel centro storico, subirono i danni maggiori mentre alla marina vennero danneggiate soltanto alcune abitazioni. Il moto ondulatorio aprì le vecchie case scoperchiandole e facendo franare i solai in una nuvola di coppi, pietre, sassi e mobili sfasciati, travi spezzate e divelte.
Rimax vide un’onda arrivare lemme lemme fino a metà spiaggia rifluendo senza causare danni e fu questa, da parte del mare, l’unica manifestazione di pericolo.
E dire che le avvisaglie c’erano state. Il 16 Maggio una scossa potente aveva fatto tremare la città e lesionato un bel numero di edifici. La cosa si era ripetuta esattamente un mese dopo, senza però causare danni ulteriori. La città si trovò impreparata, così come era successo nel primo giorno di guerra quando era stata pesantemente bombardata dall’incrociatore St. Georg apparso nella foschia dell’alba davanti alla costa aprendo inaspettatamente il fuoco.
Ma stavolta la situazione si presentò molto peggiore. Tantissime le case distrutte, ancor di più quelle danneggiate.
Al Politeama, nel momento stesso della scossa, l’onorevole Cappa era intento a commemorare la figura del martire Cesare Battisti, impiccato per tradimento poco tempo prima a Trento, nel castello del Buonconsiglio. Mentre tutto tremava intorno a lui l’onorevole non aveva fatto una piega ed anzi aveva arringato i presenti che scappavano cercando rifugio dicendo loro di vergognarsi per il loro comportamento. Come potevano permettersi di aver paura per la propria vita proprio quando stavano commemorando chi la vita l’aveva sacrificata per la Patria? E aveva continuato la sua orazione sotto scroscianti applausi.
Il giornalista non aveva aspettato che la polvere si posasse e si era subito diretto lungo il viale che conduceva in centro, con il gatto alle calcagna. Gli sembrava che gli edifici non avessero subito gravi danni ma ben diversa apparve la situazione non appena, attraversati i binari ferroviari si avvicinò al cuore antico della città. Fu costretto a fermare il calessino perché la strada era bloccata dalle macerie e cercò di procedere per la piazza principale facendo un lungo giro. Pensò con ironia a quanto avrebbero fatto comodo gli elefanti del mercante rimasti sul vapore bloccato in Africa. Vide ovunque case sventrate che sembravano aver vomitato il loro contenuto di pietre e mattoni al centro della strada. Tetti crollati sui pavimenti sottostanti, camini e comignoli falciati, tegole e coppi spezzati erano ovunque. In ogni slargo, in ogni piazzetta la gente si era raccolta guardando con apprensione le case circostanti, stringendo in mano i fagotti col poco che erano riusciti ad afferrare al momento della fuga. Magari le loro case non avevano subito alcun danno ma la paura era stata tanta e quello di mettersi in salvo un impulso irrefrenabile.
Rimax guardò una casa sventrata e franata sulla strada. Il tetto aveva resistito ma era come se la casa si fosse gonfiata verso l’esterno e poi spaccata con un grosso squarcio a forma di imbuto che lasciava vedere i solai crollati l’uno sull’altro in una cascata di detriti che serpeggiava sulla via come una lingua. In un altro punto davanti a un cumulo di mattoni, travi, calcinacci, mobili e masserizie gli abitanti della casa stavano fermi impalati non trovando il coraggio di arrampicarsi per tentare di recuperare ciò che ancora poteva essere salvato mentre allo stesso tempo non si risolvevano di
abbandonare le cose care al primo venuto. Rimax capì in un lampo che la loro ritrosia era dovuta alla paura degli sciacalli che ben presto, come sempre accade in queste occasioni, si sarebbero messi all’opera trafugando tutto ciò che era rimasto incustodito. “Ah, questi umani!” pensò Rimax con una punta di disgusto.
A poca distanza da dove si trovavano lui e il giornalista polvere e calcinacci avevano assorbito la larga macchia di sangue che si era allargata sotto un cumulo di detriti. I corpi di due sfortunati ciabattini erano ancora sotto le macerie del cornicione del palazzo che era crollato loro addosso mentre, usciti dal loro laboratorio, cercavano scampo nella strada.
Ovunque risuonavano le grida e i richiami di chi cercava di rimuovere travi e mattoni in risposta alle invocazioni e ai lamenti di chi era rimasto sepolto ma era ancora vivo.
Ripristinata la linea elettrica il telegrafo riprese a funzionare e la notizia della scossa che aveva devastato la costa, da Bellaria a Fano, raggiunse in brevissimo tempo tutte le città più importanti. Immediatamente cominciò l’esodo dei villeggianti che nonostante lo stato di guerra trascorrevano le vacanze sul lido. Presero d’assalto i treni in partenza con l’intento di tornare nel più breve tempo possibile alle loro sicure abitazioni e di sfuggire al pericolo. Alcuni, addirittura, lasciarono in stazione i bagagli preparati in fretta e furia, con l’intesa che sarebbero stati spediti al loro domicilio in seguito.
In seguito l’epicentro fu rilevato a San Lorenzo in Strada e Riccione fu la località che ebbe a lamentare il maggior numero di vittime, quindici, e di danni.
Cominciarono ad affluire treni carichi di materiale per costruire baracche, tende da campo e legname da costruzione. (alla fine furono più di 4000 i senza tetto e 615 l abitazioni distrutte o demolite perché non più recuperabili.
A tarda sera giunsero anche i funzionari inviati dal Governo, accolti alla stazione da tutti i notabili della provincia.
Quando Rimax, qualche giorno dopo, avrebbe messo gli occhi sui giornali di quei giorni, avrebbe riso sotto i baffi. Tutti quegli articoli erano pieni di sua eccellenza di qua sua eccellenza di là, l’eminentissimo signor ministro e tutti gli altolocati funzionari, tutti onorevoli, che avevano girato in lungo e in largo per le località colpite dispensando con la loro sola presenza speranza e fiducia ai terremotati. Il tono ossequioso e reverente del giornalista era indisponente, tanto era tutto teso a non ignorare nessuno dei notabili, dal Segretario Statale giù fino ai responsabili dei vari Servizi Comunali, Statali, Genio, Telegrafi, Forni, giungendo perfino a scusarsi nei giorni successivi per aver scritto in maniera errata il nome del responsabile del Servizio Telegrafico, che evidentemente si era lamentato del fatto ad alta voce. Rimax avrebbe voluto vedere scritti sul giornale i nomi degli eroi sconosciuti che si erano prodigati per salvare vite, portare soccorsi, procurare cibo e legname per costruire baraccamenti. I soldati del battaglione di artiglieria sfacchinavano sotto il sole sgombrando macerie, segando il legno e montando baracche, ma tutti gli elogi erano per il colonnello comandante che li dirigeva con alacre solerzia.
Come sono ridicoli a volte gli uomini….. sempre intenti ad osannare e ammiccare ai potenti! Rimax vide il giorno dopo i due onorevoli arrivati da Roma, seguiti dal folto codazzo di funzionari, fermarsi ogni pochi passi e dare disposizioni allo scrivano di turno, che prendeva nota in fretta di quanto detto. I due gesticolarono un po’, espressero gravi frasi di circostanza, poi rimontarono sulla loro automobile e partirono per continuare il loro giro. Prefetti, Sindaci, Funzionari e Militari in alta uniforme si affrettarono ad imitarli e la colonna di auto sparì in una nuvola di polvere. Ovunque, nei paesi del circondario la colonna di auto verificò lo stato dei danni, sempre accolta dal sindaco di turno e promettendo pane e tende. Quindi ripartiva.
Per fortuna c’era chi aveva anteposto a tutto ciò quello che riteneva essere il suo dovere. I pompieri di tutte le città emiliane e romagnole erano affluiti con le proprie attrezzature. Dotati di particolari scale Magirus, montate su una piattaforma girevole sul pianale dei carri, salivano a imbragare con funi le ciminiere delle fabbriche e delle filiere e fornaci lesionate dalla scossa e le atterravano a forza di braccia completando così l’opera del terremoto e scongiurando nuove disgrazie. Sciamarono sui tetti delle chiese mettendo in sicurezza i molti campanili pericolanti.
I nomi di queste persone il giornale non li faceva, a parte quelli di un paio di comandanti.
Intanto i treni arrivavano carichi di vettovaglie, baracche prefabbricate, cibi in scatola, tende e legname da costruzione visto che tutto quello presente in città era stato immediatamente requisito.
Una tendopoli era stata eretta davanti alla Rocca, con tanto di baracca del barbiere, perché anche chi aveva perso tutto non si rassegnava certo al destino. Altre tendopoli erano fiorite in piazza Ferrari, nel prato della Sartona, al Foro Boario e ovunque ci fosse un lembo di terreno disponibile. I Forni Comunali sfornavano pane in continuazione. La vita continuava e qualche villeggiante, più coraggioso di altri, tornò a frequentare l’arenile.
L’autore di tutti gli articoli, naturalmente, era il giornalista. Di ritorno dal fronte, dove era corrispondente di guerra per il suo giornale, si godeva un breve periodo di vacanza ospite del mercante. Amava molto gli animali, soprattutto i gatti e Rimax aveva preso l’abitudine di accompagnarlo nei suoi giri. Il suo giornale, visto che era in zona, l’aveva contattato subito dopo il sisma e lui era rientrato in servizio.
Così, un paio d’ore dopo la partenza della comitiva dei dignitari per un sopraluogo nelle località vicine, il giornalista decise di seguirli. Montò sulla sua automobile e mise in moto, senza far caso al gatto che sonnecchiava sullo strapuntino, abituato com’era alla sua presenza ed alla sua compagnia. La prima tappa la fece alla stazione ferroviaria dove i treni speciali venivano indirizzati su un binario morto ed alacremente privati del materiale che il Governo aveva inviato con sollecitudine: tende, baracche smontate, ospedali da campo, legname da costruzione, cibo, cucine da campo. Mentre il treno si svuotava dei materiali che venivano via via caricati sui tozzi camion dell’esercito e sui carri a trazione animale sul binario principale i vagoni si riempivano di tutti coloro che abbandonavano la città, preferendo accorciare la vacanza piuttosto che restare e rischiare la possibilità di nuove scosse.
Il giornalista tornò al volante e seguì uno dei camion imboccando una strada polverosa che usciva dalla città giungendo ben presto in aperta campagna. Notò che la maggior parte della case coloniche era stata colpita duramente. In particolare erano semidistrutte le casupole che di solito ospitavano i poveri lavoratori a cottimo e a giornata. Fortunatamente in campagna non si erano registrate vittime perché all’ora della terribile scossa tutti erano già nei campi. I militari fermavano l’automezzo nell’aia e offrivano tende, cibarie e materiali da costruzione che in genere venivano rifiutati. Viveri e legname, raccontavano al giornalista, non mancavano di certo in campagna. C’era invece necessità di braccia con tutta quella gioventù mandata a morire al fronte. Piuttosto: forse aveva notizie fresche sull’andamento della guerra?
Rimax rimaneva seduto in automobile osservando i muri franati, granai e fienili scoperchiati e stalle stranamente risparmiate da quella distruzione. Ben presto, nonostante i frequenti dinieghi alle offerte di assistenza il camion fu vuoto e si accinse a rientrare in città. Durante il viaggio di ritorno incrociarono diversi altri veicoli che battevano le campagne: incaricati del Genio Civile e del Genio Militare che valutavano i danni e burocrati che decidevano interventi e priorità.
In città invece lo sconforto e la paura erano molto più evidenti. Qui non c’erano filari e campi su cui distogliere gli occhi da tutta quella distruzione. In città, ovunque si girasse lo sguardo, si coglievano scene di disfacimento, tetti crollati, macerie franate fino ad oltre il centro della strada, baracche e tendopoli in ogni spiazzo disponibile. Detriti e macerie, caricati sui carretti venivano trascinati in un’area all’interno della cinta muraria, oltre la caserma, che da secoli veniva adibita a quello scopo: sopra i resti del sepolto Anfiteatro romano.
Quella sera Rimax restò ad osservare il giornalista che trascriveva in bella copia gli articoli che il suo quotidiano gli aveva richiesto vista la sua presenza in loco. Il gatto lo scrutava dubbioso. Pur avendo osservato le stesse scene di distruzione, di altruismo e di coraggio che il giornalista aveva diligentemente trascritto sul suo taccuino, l’articolo vi accennava soltanto di sfuggita. Lui avrebbe scritto ben altre cose!
Ma il giornalista sapeva benissimo ciò che stava facendo.
Eroismo, abnegazione, altruismo erano tutti appannaggio dei vari Onorevoli, Sindaci, Prefetti e Capi ufficio di cui si era scrupolosamente segnato il nome. Come pure venivano menzionati col loro nome e grado tutti gli Ufficiali militari che aveva incontrato, ma senza riferimenti a precisi reparti di appartenenza, per non portare a conoscenza del nemico il dislocamento delle truppe sul suolo patrio. Tanto se non ci avesse pensato lui l’avrebbe poi fatto la censura. Verificò puntigliosamente che tutte le organizzazioni avessero il giusto risalto e le dovute attenzioni con il nome del responsabile di turno ben evidenziato.
Il giornalista conosceva il suo mestiere. Attraverso i suoi scritti il Paese avrebbe saputo che il Governo era presente e non abbandonava i suoi figli. Interveniva immediatamente a portare aiuto e conforto. Non c’era bisogno di storie tragiche e strappalacrime: ogni giorno la guerra ne raccontava fin troppe.
I vostri Governanti sono qui con voi, in prima linea, a lottare, questo era il significato del suo articolo. E il giornalista ne andava segretamente fiero.
A Rimax quella scelta non piaceva ma non poteva farci niente ed era inutile rammaricarsene. Accantonò il pensiero e tornò a concentrarsi sui piccoli rumori che filtravano fino a lui.
Per i topi quell’intrico di macerie doveva sembrare un dono dal cielo. Tutto quel ben di Dio di cibarie sepolte, di cunicoli fra i detriti, nuove tane e nascondigli. Il gatto sapeva per esperienza che sarebbero stati incauti, che l’abbondanza li avrebbe resi pigri e meno guardinghi. Il trapestio fra i calcinacci si fece più vicino. Un’ombra si mosse furtiva fra le ombre.
Rimax snudò silenziosamente gli artigli.
Il topo si accorse del pericolo e scartò di lato, velocissimo.
Ma non abbastanza.