Pubblicato la prima volta il 23 Giugno 2016 @ 19:46
Capitolo 52 – 1826 Lo Sferisterio di Rimini
Con un “plop” smorzato Rimax comparve su un ripiano dell’alta libreria nello studio del sindaco. Riconobbe l’ambiente immediatamente, anche se era ammobiliato in maniera diversa dalle volte che era stato lì in precedenza, ma la linea dei tetti intravisti fuori della finestra, la fontana e la forma della statua nella piazza erano inconfondibili. Ancora una volta il gatto era stato strappato alla sua realtà precedente per confluire in un diverso momento storico. Che epoca sarebbe stata questa? Passata o futura? Un tempo già visitato con il quale aveva interagito o una cosa totalmente nuova? Il pastorale che la statua reggeva gli disse che il periodo doveva essere quello successivo alla rivoluzione francese quando, per evitare che i soldati di Napoleone distruggessero la statua di papa Paolo V, questa era stata camuffata con mitria e pastorale per dare ad intendere che vi fosse raffigurato San Gaudenzo, il santo protettore della città, e non il Papa. Tutto era stato poi rimesso in ordine nei primi anni del novecento.
Fiutò l’aria intorno a sé attento a ogni possibile odore sconosciuto e foriero di pericoli.
Gli venne in mente la volta che si era materializzato improvvisamente dentro una delle fosse granarie, accanto al Palazzo dei Forni. Al senso di panico irrefrenabile che si era immediatamente diffuso era seguito un fuggi fuggi in tutte le direzioni di topi grassottelli. Che scorpacciata quel giorno! Difficile che si ripetesse oggi, però: non avvertiva nessun odore di cibo e nella stanza, oltre a lui, erano presenti due uomini seduti alle due estremità della scrivania, accalorati in un’animata discussione.
– Cento scudi, ecco quanto ha messo il Comune, non uno di più.
– Ma lei, signore, dimentica che abbiamo concesso gratuitamente l’area!
– L’area era incolta, non vi è costato nulla cederla e inoltre abbiamo dovuto sanarla a nostre spese.
– Per un lato però avete sfruttato la cinta muraria! –
– Sbrecciata e semidiroccata. Abbiamo dovuto alzare e rifare completamente tutto il muro. E comunque è inutile continuare a parlarne ancora. Mi sono preso la briga di raccogliere personalmente, fra i cittadini, 400 scudi da impiegare nella costruzione dello Sferisterio per cui si farà come vogliono i soci donatori. Per l’inaugurazione una compagine locale sfiderà i giocatori più famosi delle marche e il Comune non potrà sottrarsi al pagamento del loro ingaggio.
– Ma, capitano, ci costeranno una fortuna – gemette il podestà.
– Oh insomma! – sbottò il capitano della guardia civica – finora le partite di palla al bracciale si sono svolte in piazza con tanto di vetri rotti e coppi sfracellati per terra. Sappiamo che ogni anno il Comune spende 40 scudi per rifondere questi danni ai privati e per ripulire il selciato. Visto che d’ora in avanti questi soldi verranno risparmiati potrete benissimo provvedere all’ingaggio dei quattro giocatori che abbiamo invitato.
– Vedo che avete invitato anche Cioccolanti, chissà quanto pretenderà!
– Venti scudi. Esattamente quello che abbiamo proposto agli altri.
– E siamo sicuri che accetteranno?
– Sono professionisti. E Rimini è una città importante. Fino ad oggi ci hanno sempre snobbato non disponendo la città di un campo all’altezza della loro fama e della loro bravura. Ma da oggi non abbiamo niente da invidiare a città come Santarcangelo o Treia, coi loro sferisteri. Il nostro, disegnato da Giovanni Morolli, è all’altezza delle loro strutture.
– Voglio sperarlo – sospirò il podestà – certo che la città non ha una squadra all’altezza della fama degli avversari. Chi scenderà in campo conto la squadra di Cioccolanti?
– Rimini non vanta professionisti, purtroppo, quindi partiamo già sconfitti. Comunque Domenico Savini e Vincenzo Giroli non sono poi così male. E Crostelli e Balena dovranno impegnarsi al massimo per non sfigurare.
– Andiamo bene! Due giovani di belle speranze, un cappellaio e un marinaio. Che il Signore ce la mandi buona. Sarà tutto pronto comunque per l’inaugurazione?
– Beh – esclamò il capitano alzandosi in piedi – perché non andiamo a vedere a che punto sono i lavori? –
Una volta usciti i due Rimax, saltando di ripiano in ripiano, scese dalla libreria e si affrettò a seguirli. Non dovette fare molta strada. A cento metri dall’uscita posteriore del palazzo comunale la via, dopo una stretta curva, si interrompeva contro l’elegante entrata dello Sferisterio affiancata da due piccole colonne e sormontata dallo stemma comunale scolpito nella pietra. Varcata la soglia, che trovò spalancata, si trovò su un breve spazio con il campo di gioco interamente decentrato alla sua sinistra. L’intera arena rettangolare era lunga novanta metri e larga sedici cinta su tre lati da un muro alto 14 metri con una larga gradinata sotto ognuno, in quel momento deserte, destinate agli spettatori. Come aveva affermato il capitano della guardia civica parte delle vecchie mura malatestiane era stata completamente inglobata nel lungo e diritto muro, alto una ventina di metri, necessario al gioco, che chiudeva il quarto lato.
Sulla superficie in terra battuta qualche atleta si stava allenando sul campo di gioco. Un “mandarino” si stavano esercitando con la pesante palla. Era lui a dare inizio al gioco lanciandola verso il battitore, che scendendo la pedana chiamata “trampolino” per acquisire abbrivio e dare maggior potenza alla battuta, la colpiva più forte che poteva. Curare il tempismo era vitale e spesso per il ruolo di mandarino, che non aveva altro compito che quello durante il gioco, veniva scelto un ex giocatore di bocce proprio per la sua abitudine a lanciare calcolando il miglior punto di impatto a mezz’aria.
Rimax si accorse subito che il battitore non esercitava tutta la sua potenza ma curava piuttosto il sincronismo dei movimenti, la corsa in discesa a passi brevi, la torsione di busto e spalle, l’impatto volante con la palla cercando l’affiatamento coi lanci del mandarino, piuttosto che la potenza, la precisione.
Le palle passavano sopra il cordino a mezza altezza che segnava la linea mediana e rimbalzavano nella metà campo avversaria dove gli altri due giocatori, che rivestivano il ruolo di spalla e terzino, si industriavano a rimandarle indietro, spesso mandandole a rimbalzare verso l’alto muro per ottenere effetti bizzarri. A quel punto un nugolo di ragazzetti laceri e cenciosi se le contendeva a spintoni per porgerle al mandarino che continuava imperterrito nei suoi lanci.
Per la squadra forestiera, che avrebbe dovuto esibirsi contro i riminesi, oltre al famosissimo battitore Cioccolanti, era stato ingaggiato un maceratese soprannominato “Piombo”, per la pesantezza dei suoi colpi. L’altro giocatore invitato era Carlo Didimi.
Nobile di nascita, conte, per l’esattezza, sarebbe diventato il più famoso e forte giocatore di palla al bracciale di tutti i tempi, così famoso da essere cantato, nell’ode “A un vincitore del pallone”, dallo stesso Giacomo Leopardi, come il “garzon bennato”.
Al culmine della sua carriera avrebbe preteso per le sue esibizioni non meno di 600 scudi romani, un ingaggio faraonico dal momento che lo stipendio annuo di un maestro di scuola arrivava malapena a 60 scudi. Ma le sue giocate sarebbero diventate epiche e le leggende sarebbero fiorite attorno al suo nome. Nella più famosa si raccontava che di ritorno a Treia, sua città natale dove ancora abitava e per la quale giocava abitualmente, si fosse fermato a Rimini per il cambio della diligenza e entrato nello Sferisterio, si trovò ad assistere a una partita. Su una giocata particolarmente complicata intervenne esprimendo ad alta voce la sua opinione su quello che il giocatore avrebbe dovuto fare.
– Impossibile – gli risposero – nessuno al mondo ne sarebbe capace!
E quando Didimi propose di dimostrare coi fatti la sua affermazione, quelli risero di quel damerino tutto azzimato e acconsentirono con la malcelata speranza di farsi quattro risate.
Carlo si tolse lo spolverino, indossò il bracciale e mandò la palla esattamente dove aveva indicato, con un colpo di potenza inaudita. Poi, per far vedere che nulla era dovuto al caso, ne colpì una seconda e poi una terza, mandandole nello stesso punto della prima.
Nel silenzio sbigottito che seguì quel colpo impossibile si fece udire una voce:
– Solo il diavolo sarebbe capace di effettuare un colpo simile. O lui oppure Didimi. –
– Vero – rispose il conte – ma non sono il diavolo, sono solo Didimi.
Il giorno della sfida Rimax aveva ignorato l’ingresso preferendo attraversare il nuovo arboreto e inerpicarsi sul muro di recinzione. Anche l’arboreto, ottanta piante di essenze esotiche e gemello di quello approntato davanti alla villa della Sartona, era opera di Angelo Antimi, il capitano della Guardia Civica. Costui era un nobile di ampie disponibilità finanziarie, di origine maceratese, che già aveva sovvenzionato a sue spese il restauro dei due quadranti dell’orologio della torre in piazza Sant’Antonio, oltre agli arboreti e alla fondazione di una filarmonica.
Un altro di quegli uomini – riflettè Rimax – che da sempre avevano amato quella città, profondendo del proprio senza in cambio chiedere nulla. Cercando di ripristinare la bellezza di edifici che il tempo e l’incuria degli uomini avevano rovinato e amando gli sport e coloro che li praticavano. Il gatto sospirò perché, come tutti gli
altri che sempre avevano o avrebbero fatto, senza chiedere compensi, anche loro sarebbero stati dimenticati e le loro opere distrutte. Sarebbe successo anche ad Antimi. L’arboreto della Sartona divelto per permettere la costruzione, ironia della sorte, del palazzetto dello sport mentre lo sferisterio veniva distrutto per far posto a un asilo e al palazzone dell’unità sanitaria locale. E naturalmente scomparve anche tutto il tratto delle mura antiche.
Ma tutto questo doveva ancora accadere in quel giorno di fine giugno in cui venne inaugurato l’impianto, fortemente voluto, e pagato per la maggior parte, dai cittadini.
I bassi gradini delle tribune erano gremiti di folla, intenta a sottolineare con grida e urla le giocate degli atleti.
La partita non aveva storia, troppo forte la squadra ospite perché i riminesi potessero opporsi. Ugualmente però il tifo era assordante. Non si erano mai visti prima in città giocatori di quella levatura tecnica e l’amore degli spettatori per lo sport e per i mostri sacri che lo praticavano, di cui le pagine dei giornali erano piene, era tangibile.
Anche l’amore per lo sport, secondo Rimax, era una costante in quella città. Campanilisti all’ennesima potenza ma quando si trattava di assistere alle gesta di un campione conclamato tutto passava in secondo piano.
Ragazzini scalzi, laceri e sporchi dopo essersi accapigliati per intrufolarsi nei posti più vicino possibile al campo di gioco, assistevano a bocca spalancata alle poderose
battute di Cioccolanti e alle risposte a fil di muro di Didimi. La palla, colpita con violenza impressionante spesso volava alta sopra le teste dei difensori, impotenti a respingerla e decretando così un punto per “volata”. Quindici a zero. Un’altra bordata simile alla prima, nell’ululato della folla. Il mandarino alzava di nuovo la palla a Cioccolanti che scendeva la pedana. Trenta a zero. Quaranta a zero e poi gioco. Anche il secondo gioco, dei tre che componevano il “trampolino”, uno dei quattro tempi di gioco, fu identico al primo.
E per fortuna che ogni due giochi le squadre si avvicendavano alla battuta perché i campioni più celebrati erano in grado di spedire la palla, in battuta, a più di cento metri di distanza anche per dieci volate di seguito.
Durante una pausa del gioco Rimax si avvicinò al luogo dove la squadra ospite riposava fra i suoi attrezzi. Può un gatto non essere attirato da una palla?
L’annusò. Emanava un gradevole odore di grasso perché veniva unta spesso durante il gioco, in modo che la pelle non cedesse sotto i ripetuti colpi. Provò a spostarla con la zampa ma, nonostante fosse riempita d’aria attraverso un beccuccio di corno, pesava più di tre etti: si mosse appena e poi rotolò indietro.
Una manona si materializzò sotto il suo stomaco, sollevandolo, mentre l’altra cominciò a grattarlo dietro le orecchie e Rimax ronfò di piacere.
– Guarda, guarda, un gatto che vuol giocare con noi – disse il vocione di Cioccolanti, l’omone grande e grosso che lo aveva preso in braccio. Rise e poi lo depose di nuovo a terra dove il gatto di mise a strofinarsi contro le sue gambe inguainate di seta. L’uomo indossava calzoni stretti, chiusi sotto le ginocchia sulle calze aderenti e scarpini di morbida pelle candida conciata. Una larga camicia a sacco carica di falpalà, pizzi trine e merletti era stretta in vita da una fusciacca azzurra, annodata su un fianco. A parte la fascia colorata tutti gli abiti che componevano la tenuta di gioco erano bianchi. Anche la squadra riminese, già disposta in campo ad attendere gli avversari, vestiva di bianco, ma con una sgargiante fascia rossa intorno alla vita.
Il battitore riminese si avvicinò al trampolino ed il gioco riprese. Non c’era proprio partita, dovette ammetterlo anche Rimax. Anche la battuta più potente faticava ad oltrepassare la linea di fondo ad un’altezza tale da non poter essere ribattuta. Didimi e l’altro terzino erano lesti e precisi nel
rimandare la palla nel campo avverso per cui gli scambi, comunque brevi, vedevano i riminesi appoggiarsi con le ribattute frequentemente al muro sperando che la palla assumesse rimbalzi irregolare per mettere così in difficoltà gli avversari. Ma Cioccolanti, ambidestro, adesso giocava di mancina a ridosso del muro rimandando la palla senza difficoltà. Oltre alla potenza in battuta questa sua capacità di giocare indifferentemente di destro o di sinistro era la caratteristica per cui andava famoso. Colpiva di volo, sfiorando i mattoni, o di rimbalzo con un breve passetto laterale. Un giocatore costretto ad usare il braccio destro non avrebbe avuto spazio e sarebbe stato costretto a colpire di rovescio, colpo che non dava la possibilità di imprimere molta potenza.
Dopo aver ottenuto due punti di “volata” su altrettante battute di Cioccolanti, la terza ricadde in campo e fu ribattuta dagli avversari che riuscirono ad ottenere il punto con una giocata fortunosa. Il brusio degli spettatori fu interrotto da un applauso e da qualche grido di incoraggiamento che tacitarono per qualche momento i lazzi e i frizzi dei tifosi santarcangiolesi che per ragioni di campanile assistevano alla partita unicamente per tifare contro i riminesi. La vicina cittadina disponeva già da qualche anno di uno sferisterio e la squadra cittadina era abituata a scontri di un certo livello, ben superiore a quello riminese i cui giocatori erano costretti a giocare in strada. Quindi facevano un tifo accanito contro la squadra di casa e sottolineavano ogni punto subito con lunghi applausi, sberleffi e urla di scherno. Una maniera di tifare che a Rimax proprio non andava a genio perché opposta all’idea che lui aveva di fare sport. Secondo il gatto bisognava tifare per i proprio beniamini e, se non si era tifosi di una o dell’altra parte, applaudire qualsiasi bella giocata, chiunque fossero i contendenti.
Tornò a curiosare attorno agli strumenti di gioco di scorta rimasti sul terreno. Il bracciale, ottenuto da un unico pezzo di noce stagionato, era stato scavato al suo interno in modo da permettere a chi lo imbracciava un’impugnatura personalizzata. Sulla superficie esterna in una serie di fori in sette cerchi concentrici, erano infissi 105 aculei, chiamati bischeri, tagliati in forma piramidale, addossati l’uno all’altro e realizzati in durissimo legno di sorbo, o di corniolo o di bosso. Per ottenere potenza, e soprattutto precisione, occorreva colpire in pieno la palla con almeno tre bischeri, altrimenti questa prendeva effetti e direzioni impreviste. I giocatori poi dovevano essere agili, potenti, resistenti e coordinati e possedere di un misto di doti di acrobazia proprie del pugilato, della scherma e del ballo.
Non era sufficiente la potenza o la forza fisica per riuscire a giocare bene con quell’attrezzo del peso di circa due chili.
Fra le urla di incoraggiamento della folla la squadra riminese ottenne un altro paio di punti e si aggiudicò il gioco, rinfocolando il tifo sugli spalti e dando il via a nuove scommesse. Naturalmente nessuno aveva scommesso sul risultato della sfida, il cui esito era pienamente scontato, quanto piuttosto sul numero dei giochi che gli sconfitti si sarebbero aggiudicati e sul numero delle volate ottenute direttamente sulla battuta.
– Niente cambiava mai – pensò amaramente Rimax – né sotto i romani, né sotto i dogi, i principi o i pontefici. La possibilità di assistere per pochi spiccioli a sfide sportive o a giochi in generale, mescolati alla possibilità di vincere cospicue somme con le scommesse, pienamente consentite dallo stato nell’ambito dello Sferisterio, erano la valvola di sfogo ideale in quei tempi di nascente patriottismo, per cui proteste e malcontento venivano incanalate e tenute sotto controllo.
Dopo un altro punto ottenuto dai giocatori di casa, Giovan Battista Pivi, che figurava come giocatore di riserva riminese, si voltò verso i tifosi santarcangiolesi che continuavano nei loro sfottò e li apostrofò duramente. Pivi era un attaccabrighe conosciuto per le sue continue intemperanze sul campo di gioco (tre anni più tardi un certo Giovanni Amagliani, più volte provocato, si sarebbe stancato delle continue offese, bastonandolo di santa ragione) e continuò ad aizzare gli spettatori con gesti minacciosi. Qualcuno fra il pubblico accennò ad alzarsi per dargli man forte ma i gendarmi stavano all’erta e si interposero fra le tifoserie evitando pericolose colluttazioni. Non sarebbe accaduto altrettanto cinque anni più tardi quando per ragioni di campanile le tifoserie, stavolta le squadre di Rimini e Santarcangelo erano schierate l’una contro l’altra, vennero alle mani e i gendarmi si misero d’impegno per portare tutti, senza eccezioni, nelle vicine celle della Rocca.
La partita terminò come doveva terminare, con la schiacciante vittoria degli ospiti, e gli spettatori cominciarono a lasciare gli spalti.
Fuori dall’impianto la folla oltre che alle bancarelle che vendevano statuette di gesso dei giocatori più famosi, con tanto di medaglie dei tornei vinti appuntate sul petto, si assiepava attorno a quelle che vendevano cibarie e bevande. L’acqua e il vino venduti dagli orciaioli non interessavano al gatto ma i profumi e la fame atavica che lo assillava sempre come una maledizione lo attirarono come una calamita verso il venditore di porchetta. La fragranza della carne cotta, accompagnata a quella delle grosse fette di pane che venivano via via tagliate, solleticava le narici del gatto, ma l’affollamento intorno all’ambulante e la selva di gambe da attraversare lo distolsero ben presto dal tentare la sorte. Assembramenti analoghi circondavano i venditori di pesce fritto e quelli che vendevano piada e salumi. Impossibile avvicinarsi e sgraffignare qualcosa.
Le uniche possibilità, lì di gente non ce n’era molta, riguardavano le bancarelle che vendevano zucchero filato, dolcetti e frutta secca. Tutte cose che non lo interessavano affatto.
Decise di tornare sui suoi passi. Si era improvvisamente ricordato (la fame spesso acuisce l’ingegno) di certe tane di sorcio notate nei sotterranei della Rocca. A pensarci bene era vicinissima e sarebbe bastato seguire il terrapieno del fossato, ormai in disuso, fino alle mura. Una volta lì per entrare nelle segrete si sarebbe servito della semidimenticata e nascosta Porta del Gattolo.
Quale se no?
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Un bellissimo angolo di Rimini che non c’è più, purtroppo… Complimenti per lo scritto Maurizio! Io mi sto occupando proprio di Angelo Antimi Clari (parente alla lontanissima, una delle sue sorelle sposò un mio trisnonno) per un saggio relativo alla sua collezione d’arte che un tempo egli conservava nell’appartamento che aveva preso in affitto presso Palazzo Cisterni. L’anno scorso abbiamo anche ritrovato due “bracciali” per il gioco del pallone che probabilmente appartenevano a lui!
Salve ho appena letto che è in possesso di due bracciali, è possibile vederli, magari in una mail se vorrà inviarmela?
Grazie.