“L’è un zóvne antìg”

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Pubblicato la prima volta il 29 Ottobre 2016 @ 00:00

“Cosa ci hanno lasciato” di Grazia Nardi
Vocabolario domestico: “L’è un zóvne antìg”

Un giovane “di una volta”. L’espressione definiva il celibe a oltranza, quello che oggi diremmo single, “giovane” nello stato civile ma non per età: ”urmaj un sé spósa pió”. Raramente era il bellone: quelli, prima o poi, dopo il lungo esercizio praticato con le turiste straniere, il “prendo e lascio” verso le donne locali, al primo cenno di calvizi capitolavano, magari scegliendone una assai più giovane, condannati a “stèj drè” tutta la residua vita. Quando invece attempato ma mai cresciuto, anche un po’ “ligéra” (ovvero assai libero nell’interpretazione della regole sociali), si accasava definitivamente nella dimora dei genitori e scattava la solidarietà con la mamma “purèta l’ha da bazilè quant la vò” (poverina dovrà “combattere” sempre).

Ma il più delle volte assomigliava a quel personaggio che, nei film del dopoguerra, era rappresentato dal ragioniere bruttarello che, quando era il momento, aveva impiegato il suo tempo per “farsi una posizione” ma in seguito, non aiutato dal fisico, era ormai troppo tardi.. anche perché – commentavano le mamme delle donne ancora in cerca di marito – “chi tò ma quèl l’ha da badè ènca ma la mà vecia e sgudébla” (chi sposa quello, dovrà prendersi cura anche la mamma vecchia e poco dolce). Era il tipo adatto al matrimonio “combinato”, magari con la donnina fisicamente modesta ma brava “nei lavori” di casa, seria, che veniva dalla campagna mandata dalla famiglia in cerca di un buon partito e che vedeva in quella sistemazione una soluzione alternativa al lavoro che l’attendeva ovvero “andare a servizio” in “chèsa di sgnùr”.

Ma non rare le volte in cui cadevano ai piedi della bella con “un passato”, in cerca di una riparazione che le garantisse un futuro con un nome “stimato”. Un “vedova allegra” come le chiamava la mamma, che “l’ha ja fat sintì l’udór…“. Era un giudizio critico, duro verso chi “la pianzéva me funerèl de marìd e e’ dé dòp l’èra s’un èlt” ma c’era anche un misto di ammirazione, tacita, per chi riscattava tutte le donne sottomesse ai mariti severi, quando non violenti “l’i fa al sgnóri… l’i fa bèin, lóri e’ marìd il mèt sóta i pìd”. La donna, invece, non era considerata una “giovane antica“ ma semplicemente una zitella. E quando si bollava con un “l’è antiga”, si alludeva sì allo stato nubile a età avanzata ma, nello specifico, ci si riferiva allo stato in cui si presentava: “antiquata” nei modi e nel vestiario, con una dIscreta dose di acidità. Perché, a differenza dell’uomo, raramente aveva una posizione che la rendesse autonoma economicamente, costituendo così un peso per la famiglia d’origine se fosse fallito il matrimonio combinato che, comunque veniva sempre tentato con la mediazione di un “rufièn”. Un buon corredo portato in dote ricamato in tutti gli anni di attesa, “du sóld” rimediati coi risparmi di tutta la vità già trascorsa.

C’era anche il genere “signorina”, caratterizzata dall’abbigliamento ricercato, il trucco in viso, una buona dose di disinvoltura e il massimo: la sigaretta! Faceva trasparire che “quèlla da zóvna l’a sé divertì quant l’ha vulù”. Ma la sorte più dura era riservata alla ragazza madre, quella che “l’avù un fiól senza marìd”: uno stato frequente nel dopo guerra, dopo il passaggio degli alleati. A casa mia ho sentito sempre parole di solidarietà “l’ha s’è tnùda e’ su fiól… l’ha sèmpra lavurè cmè na besc-ia”. Ma in generale venivano emarginate loro ed il “figlio della colpa”, per anni umiliati come “bastardi” o figli di “enne, enne”.

Dunque, nelle famiglie dove era presente la femmina era chiaro e netto l’obiettivo di farla sposare. Nella mia no. Il babbo manco voleva che continuassi gli studi che “pó l’ariva un pataca c’ut la porta via..”: la dice lunga su quale considerazione avesse di un ipotetico pretendente mentre la mamma amante della lirica ma impedita dal babbo che non “la faceva uscire”, si raccomandava “tè Grazia nu spóste, va sintì l’opera…”.

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