L’am fa cumpagnìa…

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Pubblicato la prima volta il 30 Marzo 2016 @ 00:00

Mi fa compagnia: espressione che, a seconda del soggetto, può dirsi anche al maschile “um fa cumpagnìa…” e che, a differenza di altre sfumate nel tempo, si diceva e si dice ancora. E non sempre andava o va riferita ad un soggetto vivente, perché quando si vive in solitudine di fatto o di sentimento ognuno può scegliere a chi attribuire questo valore.

Mi è capitato di scrivere in un commento sulla pagina Facebook che, nel momento in cui condizioni personali e familiari mi obbligano a “stè ciusa ad chèsa”, come diceva la Elsa, Rimini Sparita mi “fa compagnìa”: le do appuntamento tutti i giorni, mi confido, leggo le risposte, allargo le mie conoscenze… non mi sembra davvero poco. E mi viene in mente una mia anziana zia, in realtà sorella della nonna che, rimasta sola in una di quelle case piene di pizzi, di tazzine esposte nelle vetrinette, addirittura, ricordo, con la vasca da bagno in rame parlava con una bambola di quelle “alte” seduta, a gambe divaricate, sul letto tra i due cuscini; una bambola vestita da “damina”, le braccia tese in avanti come se volesse andare incontro alla zia, i capelli di stoppa, il viso di un materiale che lo rendeva simile alla porcellana, gli occhi con le palpebre mobili. La zia le aveva dato un nome e le si rivolgeva come fosse una bambina ed allo stesso modo le era affezionata e, diceva, “l’an fa tènta cumpagnìa”.

Questa stessa funzione la mamma l’attribuiva alla radio, quando lo zio Gino, uno che spataccava in quel campo, gliene aveva costruita una. La Elsa non era sola, aveva una famiglia a cui badare, una casa da custodire, la cucina cui dedicare tempo e fantasia… ma nel pomeriggio, quando i bambini andavano “di sotto” a giocare e il babbo era fuori per lavoro, il sottofondo della radio le faceva compagnia mentre stirava o cuciva. Era il primo ed unico momento della giornata che dedicava a sé perché mentre le mani ripetevano azioni oramai consuete, la mente poteva spaziare altrove, nelle storie degli ospiti dei sanatori da dove si trasmetteva “Sorella Radio” presentata da Silvio Gigli, nelle avventure di commedie recitate dagli attori del momento, quelle voci calde ora drammatiche ora ridenti la portavano, per qualche ora, in un mondo fantastico dove la verità trionfava sempre, i buoni vincevano, i cattivi severamente puniti. Era facile immedesimarsi, mentre il silenzio della stanza era intaccato solo dai sospiri o del ferro da stiro che si appoggiava sul piano della stufa. E c’erano le canzoni, che si ascoltavano con attenzione per impararle e poi riproporle, con la propria voce, nei giorni a seguire: piacevano i testi romantici, commoventi che, spesso, facevano scendere lacrime liberatorie e scaricavano le tensioni accumulate. “Alóra al canzòun agli era pió bèli” – diceva la Elsa – “òz quand agli è bróti agli è ènca lònghi…”.
Ma nelle notti che apparivano più lunghe delle altre quando non c’era la televisione e si evitavano dialoghi in famiglia per risparmiarsi le preoccupazioni di cui erano sempre intrisi, anche un’insegna che s’intravedeva lampeggiare fuori dalla finestra, “teneva compagnìa”, dava la dimensione della vita che continuava anche “fuori” di noi, diventando persino rassicurante che si accendesse tutte le sere, alla stessa ora. Può sembrare anomalo, oggi, che, parlando di “compagnia”, non abbia citato gli animali tipo il cane, il gatto che ovviamente c’erano (anzi, ogni famiglia aveva perlomeno un gatto). Il fatto è che, allora, il rapporto era diverso da quello quasi totalizzante di oggi. Non ho mai sentito dire “il mio figlio peloso” perché, come più volte sottolineato, la vita portava a dare priorità ai bisogni essenziali, a garantire un’alimentazione adeguata ai figli, a preoccuparsi della loro salute e dico che gli animali domestici percepivano questo clima e si procuravano, per lo più, il cibo da soli: quando rientravano in casa per il ritiro serale, generalmente, avevano già mangiato. Era l’epoca in cui i gatti davano la caccia ai topi per mangiarseli, mentre i cani godevano nell’addentare l’osso. Non esistevano scatolette o crocchette, al massimo qualche modesto residuo proveniente dal pranzo o dalla cena, allungato con acqua e pane raffermo per fare la “sópa” o la ciotolina, con il latte sottratto da quello che serviva alla colazione dei bambini.

Poi è vero che, non visti, noi bambini gettavamo al gatto od al cagnolino, che ci sfregava le gambe, un pezzetto di pane passato nel sugo del piatto… perché allora, comunque, le bestiole mangiavano di tutto, anche e soprattutto quello che riuscivano a sgraffignare sul tavolo, se lasciato incustodito. Non si era ancora affermata la teoria che “questo fa male al fegato, quello ai reni, quell’altro al pelo” e, potendo, ci portavamo a letto il gattino per affetto ma non di meno per riscaldarci, rattristiti dal pensiero dei gattini che non avevano una casa e stavano fuori, al freddo.

Quando ci arrivava il lontano miagolìo cresceva l’angoscia: “Mamma, posso andare a prenderlo? “ … “Dorma e sta zét!”.

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