Pubblicato la prima volta il 9 Agosto 2018 @ 09:47

La leggenda – come sempre un misto di verità e finzione – narra che ai tempi dell’imperatore Ottone (962-973) i riminesi accorsero sulla spiaggia incuriositi da una forte mareggiata. Sospinta dai flutti videro giungere verso riva una grande arca di marmo che si fermò nei pressi del monastero benedettino di San Pietro, in un luogo che sarà chiamato Sacramora, nome che probabilmente deriva da Sacra Dimora. L’arca rimase sulla spiaggia per diverso tempo, non avendo avuto successo i vari tentativi di spostarla. Solo l’abate del monastero di San Pietro, Giovanni, riuscì nell’intento e il sarcofago venne trasportato all’interno del monastero (che prese poi il nome di San Giuliano), e qui aperto: all’interno, il corpo incorrotto di San Giuliano vestito di uno splendido manto insieme a sette teste e ad un documento che ne avrebbe disvelato l’identità e la storia.
Il corpo era quello di Giuliano, nobile istriano figlio di un senatore romano e di Asclepiodora, una cristiana. Non volendo rinnegare la propria fede cristiana, subì il martirio a Flaviade, in Cilicia, all’epoca delle persecuzioni dell’imperatore Decio (249-251 d. C.) per ordine del proconsole Marciano. Venne rinchiuso in un sacco con delle serpi, quindi gettato in mare. Trasportato nel Proconneso, nel Mar di Marmara, venne dalla popolazione cristiana del luogo deposto all’interno di un sarcofago posto su uno sperone di roccia a picco sul mare. In seguito ad una frana, il sarcofago cadde in mare e miracolosamente arrivò a Rimini.
Con una bolla papa Bonifacio IX, il 1° giugno 1398, su istanza di Carlo Malatesta, approvò il culto del santo. Nel 1409 Bitino da Faenza dipinse il noto polittico con scene della vita del santo, e fu probabilmente in quegli anni che il sarcofago venne nuovamente aperto.
Solo nel marzo del 1584 venne organizzato un altro sopralluogo all’interno del sarcofago. Sollevato il coperchio, si trovarono due casse, quella superiore con il corpo del santo, quella inferiore vuota. Vennero estratte due monete, una d’argento rinvenuta tra la codiga et l’osso, ed una aragonese, dove si incastra il coperchio dell’arca. Al loro posto venne lasciato un testone di Gregorio XIII, insieme ad altre reliquie. Da allora l’arca non venne più aperta, fino all’8 giugno 1910.
Giuseppe Gerola, che nel 1911 firmò un articolo apparso sul Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione, scrisse che la ricognizione non venne eseguita con tutte le attenzioni del caso:
A parte infatti la facile dispersione di preziosi frammenti di stoffa disputati fra i fedeli come reliquie, non fu tenuto il debito conto del luogo preciso dove i singoli oggetti erano riposti, mentre nè il processo verbale allora steso fa di essi particolareggiata menzione, nè chi fu presente alla cerimonia ricorda più certi particolari. La stessa scoperta delle mirabili stoffe sarebbe forse passata inosservata se, nel settembre scorso, Corrado Ricci non ne avesse avuto sentore, ed immediatamente, impedito allora egli medesimo, non avesse incaricato chi scrive di un sopraluogo.
Gerola rilevò che il sarcofago, murato nella parte di fondo dietro l’altare maggiore, era di epoca imperiale romana, lungo 1 metro e 98 cm, alto 1 metro e 5 cm (escluso il coperchio) e largo 98 cm. Appariva consunto e abraso in molte parti: i fedeli avevano infatti l’abitudine di grattarne la superficie per ottenere una polvere che credevano miracolosa. All’apertura dell’arca l’interno apparve come era stato descritto nel 1584: vi erano due casse e intorno ad esse diverse ossa e frammenti di legno, metallo e pietra, probabilmente le reliquie deposte durante la ricognizione compiuta tre secoli prima. Vennero recuperate e portate in canonica
le monete, un piccolo orecchino d’oro a filamento annodato, un amuleto in piombo – infranto – col trasporto della casa di Loreto, parecchi grani di rosario e simili, una crocetta di osso ed una carta con scrittura del secolo XV, contenente un brano di preghiera a S. Giuliano.

La cassa inferiore fu utilizzata per esporre il santo in una vetrinetta approntata per l’occasione, mentra quella superiore, contenente le reliquie del santo, venne esposta insieme ad esse. Sotto al coperchio di questa seconda cassa era stata posta una grata di ferro, mentre nel coperchio stesso era stato ricavato uno sportellino dotato di chiavistello attraverso il quale si potevano osservare le ossa del santo. Dentro il cofano si trovava il corpo del santo, avvolto da diversi drappi e circondato da fronde di alloro e da spighe di grano, insieme a diverse monete.
Le monete vennero ritrovate, oltre che nella cassa di legno contenente il santo, anche nell’arca marmorea. L’epoca della loro coniazione copre un arco temporale amplissimo: si va da un piccolo bronzo di Costantino I (306-337) a denari imperiali del XII secolo, da grossetti del comune di Pisa ad un quattrino di Innocenzo X del 1649.
Lì dove la leggenda volle scaturisse una fonte di acqua purissima in seguito all’approdo dell’arca del santo, possono leggersi le seguenti parole:
HUIUS JULIANUS LOCI SACRI CUSTODIA FONTIS
DORMIO DUM BLANDAE SENTIO MURMUR AQUAE.
PARCE MEUM, QUISQUIS TANGIS SACRA MARMORA SOMNUM
RUMPERE: SIVE BIBAS, SIVE LAVERE: FIDE!
che, tradotto (nell’epigrafe a fianco), significa:
IO, GIULIANO, A CUSTODIA DELLA FONTE DI QUESTO SACRO LUOGO
DORMO AL BLANDO SUSSURRO DELLA SUA ACQUA.
CHIUNQUE TOCCHI IL MARMO BENEDETTO NON TURBI IL MIO SONNO
E SIA CHE EGLI BEVA, SIA CHE SI LAVI: ABBIA FEDE!
la traduzione dell’iscrizione è errata, almeno nella parte finale: fide è imperativo “prometti!”, non “abbi fede”
fīdo, fīdis, fisus sum, fisum, fīdĕre: fidarsi, confidare, avere fiducia in, credere, sperare, aver fede
Esatta la prima traduzione e la risposta: “abbi fede”! Basta un qualunque vocabolario di latino per confermare
LA TRADUZIONE CORRETTA E’ “PROMETTI” OSSIA DETTO COLLOQUIALMENTE “MI RACCOMANDO!”, NN SERVE DIZIONARIO, “ABBI FEDE” SI PUO’ ACCETTARE NELL’ACCEZIONE DI “SII FEDELE” A QUESTA PROMESSA, NN CON RIFERIMENTO ALLA FEDE CRISTIANAMENTE INTESA