Pubblicato la prima volta il 25 Giugno 2021 @ 10:26
«Rimini, cos’é?», si chiedeva Federico Fellini, concludendo istintivamente «non è un fatto oggettivo ma una dimensione della memoria» e, in questa dimensione, rimangono immutabili alcuni contesti che vanno ben oltre la toponomastica. La narrazione di un’ipotetica, ma auspicabile, mappa emotiva riminese, oltre a delineare un’area già storicamente separata dall’asse ferroviario, cesura fisica e psicologica tra Mareina e Zità, racconterebbe che l’incrocio tra via Serpieri e Corso d’Augusto, definito Cantone di Santarcangelo fino alla Seconda Guerra Mondiale, nel 1963 è divenuto improvvisamente e definitivamente l’Omnia, riferimento tangibile e immarcescibile di un’iniziativa imprenditoriale davvero epocale; mentre agli occhi di residenti e turisti, il Borgo per antonomasia verrebbe inevitabilmente individuato in quello di San Giuliano, un’altra città nella città – per riprendere la definizione del Grattacielo citata in un precedente articolo (v. Ariminum n. 161).
Nella stessa ipotetica mappa un posto prioritario, per l’intensità di ricordi e dei suoi protagonisti, verrebbe così occupato dalla Piazzetta Gregorio da Rimini, che Oreste Delucca puntualmente segnala essere stata la sede dell’antica Chiesa di San Gregorio, con annesso cimitero: per questo motivo l’area è stata storicamente ribattezzata Campo di San Gregorio e, dal 1894, formalmente intitolata al teologo agostiniano trecentesco riminese. Ma tali indicazioni, pur di solide origini medievali, non sono riuscite a sostituire nel lessico popolare il riferimento alla vendita quotidiana dei molluschi ivi svolta sino al 1969, tra i quali, insieme ai garagoli e ai lumachini, spiccavano le Poveracce, al puràzi, ovvero le Vongole dell’Adriatico. Il nome stesso esplicita un alimento un tempo davvero essenziale, su cui sono proliferati detti vernacolari come «Puràz chi li ciàpa, puràz chi li vend, puràz chi li magna» («Poveraccio chi le pesca, poveraccio chi le vende, poveraccio chi le mangia»), proprio per la loro facile reperibilità sulle nostre rive che, in epoche difficili e non remote, ha rappresentato la greve sussistenza quotidiana per molti cittadini nell’indigenza novecentesca, ben prima dell’avvento della Rimini Felix. Negli anni Trenta del Novecento, Armido Della Bartola, bambino appena trasferitosi da San Mauro a Rimini e residente a ridosso delll’arenile di Bellariva, rimase talmente segnato dalla vista degli anziani curvi nella raccolta sulla battigia da farne un proprio caratteristico soggetto, dal forte impatto cromatico ed emozionale. Scriveva il pittore nella propria autobiografia: «Molti riminesi “rimediavano” la cena raccogliendo qualche vongola a riva, durante la bassa marea: la magra raccolta, aperta sul testo della piada arroventato e condita solo con l’acqua marina espulsa, rappresentava l’unica portata serale della povera gente». L’acqua di mare, abbinata ad altri ingredienti come sale, limone e qualche goccia d’olio, ove inzuppare il pane raffermo o di giornata, è fondamentalmente componente odierna della ricetta tradizionale riminese.
Le Poveracce venivano vendute in Piazzetta su banchetti gestiti prettamente da decine di donne, le cosiddette puverazàri (poveracciaie), dall’aura di lavoratrici tanto povere quanto instancabili. L’aspetto, comune a tutte, ne rappresentava visivamente l’intensità e la fatica: vestite di nero, fazzoletto in testa, mantellina sulle spalle, le mani malamente protette dai mezzi guanti, con le dita lasciate libere per lavorare; in inverno stringevano, sotto i piedi o tra le gambe, lo scaldino di terracotta o realizzato con barattoli di latta recuperati da una delle botteghe attigue, con dentro un po’ di carbonella accesa, mentre alcune assi di legno tenevano sollevati i piedi dal gelo del terreno; la stadera come unico strumento.
Queste donne straordinarie, spesso mogli dei pescatori stessi – leggenda vuole che alcune fossero vedove di marinai scomparsi tra i flutti, alle quali era stato garantito un mestiere per sopravvivere – attendevano sul molo l’arrivo notturno delle barche per caricare sacchi di juta pieni di molluschi sulle proprie biciclette, a volte quantificati in decine e decine di chili: una fatica, per la nostra generazione, commovente e incommensurabile. Nel buio e nella nebbia degli antichi inverni riminesi, magari nella neve fresca e scalze per non scivolare sui lastroni di ghiaccio e, quindi, rovesciare l’instabile e dimesso, ma prezioso, mezzo, si avviavano lentamente verso la città per occupare la sistemazione migliore (a parte la priorità data ad alcune veterane, l’assegnazione dei banchi seguiva rigorosamente l’ordine di arrivo); sul posto, veniva acceso un piccolo falò con la poca legna rintracciata in qualche cantiere edile, confidando nel buon cuore del commerciante Benvenuti (un altro protagonista del commercio riminese, che ha parimenti contribuito all’affermazione della Piazzetta nella memoria collettiva) che apriva regolarmente le porte del proprio magazzino per confortare quelle povere donne, sfinite dalla fatica e dal freddo, permettendo loro di riposarsi tra gli imballi e i tessuti sino all’alba. Chi arrivava prima, infatti, utilizzava convenzionalmente un sacco di poveracce quale segnaposto, sorvegliato a turno da una collega impegnata, nell’attesa, a far la calza mentre la proprietaria andava a riscaldarsi al coperto. Alcune di loro, accantonando la vendita stanziale al banchetto, proseguivano direttamente il logorante percorso per decine e decine di chilometri proponendo, sulla costa o nell’entroterra, i molluschi strada per strada al grido di “Puràzi, dòni!” (una litania talmente popolare da aver ispirato il titolo di un libro di antiche ricette marinare romagnole, pubblicato da Panozzo nel 2005). Tra quelle donne straordinarie oggi si ricordano Giuseppina Tentoni (detta La Pina ad Palota) o Gianna Neri (Giana ad Baben), entrambe di Viserbella, protagoniste di un celebre aneddoto citato, anni fa, da Elena Guiducci: Gianna, addormentatasi stremata sul carretto utilizzato per spostare i sacchi, venne spostata dalla Pina sino a piazza Tre Martiri e là, a mattina inoltrata, si è risvegliata di soprassalto, stupefatta di trovarsi da tutt’altra parte, tra le risate delle poveracciaie accorse. Ma la vongolaia più citata è ancora oggi la Mela, la più anziana e nota: di bassa statura, le gambe arcuate, portava con se’ una vita lunga e una storia dolorosa. Rapita dal compagno per sposarsi contro il volere della famiglia, che vedeva nel futuro marito un poco di buono, aveva poi amaramente scoperto la reale indole sfaccendata e violenta dell’uomo; nonostante tutto Mela appariva in Piazzetta sempre allegra e sorridente. L’onnipresente Napoli, invece, era il factotum, facchino e aiutante, nonché gregario maschile, di questo coriaceo gruppo di vere azdore, nel senso proprio e ancestrale di reggitrici.
L’inaugurazione del Mercato Centrale Coperto (1969), che fagociterà le vendite ittiche ambulanti per ovvi motivi igienici e sanitari, porterà alla repentina scomparsa di queste figure e alla profonda trasformazione di quella Piazzetta, che Liliano Faenza paragonava a «un pozzetto, piccola come un teatrino parrocchiale» e che ha affascinato e ispirato artisti come il citato Della Bartola, ma anche Demos Bonini e, precedentemente, Filippo De Pisis. La gente non si sarebbe più messa con la naso all’insù, verso una finestra al primo piano, per attendere le gesta di Caccola il beffeggiatore, «sarto qualche volta e sfaccendato quasi sempre» e non sarebbero più andati in scena i mille personaggi ormai leggendari della Rimini novecentesca: il suonatore di fisarmonica cieco Bilòz, Mario d’la benda e il suo banjo, oppure Gildo, il rivenditore di cravatte, che mandava baci alle belle signore ripetendo, a fil di voce e scuotendo la testa, «Dove passo io passa l’amore». Sarebbero rimasti e sopravvissuti per altri anni, ben distribuiti tra la Piazzetta e la Vecchia Pescheria, oltre alla merceria Benvenuti e al ristorante Forza e Coraggio, i macellai specializzati, i negozi di alimentari, le botteghe e i bar oggi parimenti rimpianti dalla cittadinanza che, citando le parole odierne di Claudia Pasini (il cui Forno della ha preso il posto proprio dell’ex ristorante), tra il Dopoguerra e la fine del secolo scorso hanno rappresentato un vero e proprio «centro commerciale a cielo aperto» ove, secondo l’autobiografia di Zeno Zaffagnini, «sembrava che tutto il commercio si volgesse in quella piccola porzione di territorio riminese».
Ariminum
Anno XXVIII – N. 3 Maggio-Giugno 2021