La grande paura

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Pubblicato la prima volta il 26 Maggio 2020 @ 12:48

L’epidemia più spaventosa della storia fu quella del 1438, la famigerata Peste Nera, che arrivò dall’oriente con 12 galere genovesi piene di appestati, provenienti da Caffa nel Mar Nero, dove i Mongoli utilizzarono per la prima volta nella storia una sorta di arma biologica: corpi di persone morte di peste catapultati dentro la città assediata! La penisola italiana fu duramente colpita, è la peste del Decameron di Boccaccio. A Rimini tra giugno e novembre 1348 perirono 2400 persone (circa un terzo della popolazione di allora) come recita una lapide conservata nel Museo della Città, proveniente dal convento di S. Francesco (era vicino, lato mare, al Tempio Malatestiano) presso cui era il principale luogo di sepoltura della città. Questa epidemia causò anche la fine della Scuola Pittorica Riminese del ’300.

L’epidemia di peste più conosciuta è quella del 1630, detta anche del Manzoni, perché entra nella trama dei Promessi Sposi. In Italia fu colpito particolarmente il nord. A Milano il primo caso si verificò alla fine di ottobre del 1629 ma l’epidemia scoppiò nel marzo dell’anno seguente e si diffuse seguendo le grandi vie di comunicazione. Poche città dell’Emilia e della Romagna si salvarono dal contagio, tra queste Rimini. La peste era arrivata a Cesena dove perirono 6000 persone e in città regnava una grande paura. Il resoconto di quei mesi terribili è documentato nei “Diarij” del canonico (sacerdote della Cattedrale, che allora era S. Colomba), di origini santarcangiolesi, Giacomo Antonio Pedroni: sei volumi manoscritti conservati nella Biblioteca Gambalunga.

La prima notizia che riguarda la peste la troviamo nella Cronaca del Pedroni il 16 giugno 1630. Si tratta della partenza da Roma dei Commissari alla Sanità nominati dal Papa Urbano VIII Barberini per arginare la diffusione della malattia: Mons. Vitelli per l’Umbria e Mons. Gaspare Mattei per «tutta Romagna, con amplissima autorità Aptica, occorrendo di punire etiam in pena capitale qualunque trasgressore… per armare i confini et rendere sicuri gli habitatori di città» (Pedroni, Diarij, vol. IV, p. 162. Le prossime frasi virgolettate faranno tutte riferimento ai Diarij del Pedroni). Mons. Mattei arrivò a Rimini venerdì 28 giugno verso sera. Non perse tempo perché alla stessa data il Pedroni annota che «L’ Ill.mo S. Gasparo Matteo commiss. Aptes ordinò alla ill. ma Comunità di Rimino che deputassero un luogo per fare la quarantena a passaggieri et simili altre persone in occasione de presenti sospetti». Il luogo prescelto per la quarantena fu il convento della chiesa di S. Nicolò al Porto dei monaci Celestini, che aveva una ubicazione adatta, fuori dalle mura della città. Pattuito un affitto annuo di 100 scudi, i monaci si trasferirono nel palazzo dei Leschi del capitano Battaglini dove di affitto pagarono 50 scudi all’anno.

A Rimini il primo maggio 1629 erano stati nominati otto Eletti alla Sanità (di cui sei provenienti dalla nobiltà) che dovevano vegliare sui controlli nelle porte di ingresso alla città. La carica durava un anno. In tempo di epidemie potevano entrare in città solo i forestieri muniti di “Fede di Sanità”, un foglio (era redatto dai parroci, spiega il Pedroni) che attestava che la persona proveniva da un luogo che non era infetto dalla peste. Chi era sprovvisto di questa “Fede” era costretto a sostare in un luogo apposito, il lazzaretto, per un tempo variabile da 20 a 40 giorni dove, se la malattia era in incubazione, aveva il tempo di manifestarsi (l’incubazione per la peste varia da 1 a 12 giorni). Il 10 giugno, prima dell’arrivo del Mattei, su iniziativa del Vescovo Angelo Cesi, erano iniziate le processioni «per gli imminenti pericoli et sospetti di peste». Si svolgevano al mattino e partivano ogni giorno da una chiesa diversa dove il Vescovo officiava la Messa. Il 21 giugno è il turno della chiesa di S. Girolamo, il giorno dopo fu la volta della chiesa di S. Giuliano. Nella processione il Vescovo scalzo e a testa bassa (come gli altri partecipanti, in segno di penitenza) procedeva all’inizio del corteo. Lungo il percorso venivano visitate le chiese dei santi protettori di Rimini eccetto quella del Patrono, S. Gaudenzio, perché era situata fuori dalle mura di cinta della città (era sulla via Flaminia, a monte dello stadio Romeo Neri). Si temeva che forestieri, o persone sospette di contagio, si potessero «inframmettere» nella processione ed entrare così non controllate nella città. S. Gaudenzio veniva comunque salutato dalla Porta di S. Bartolomeo che era davanti all’Arco di Augusto.

Per poter meglio controllare gli accessi alla città il 22 giugno venne chiusa la Porta di S. Andrea o Montanara; ciò creò non pochi disagi agli abitanti del contado. Alla fine di giugno il Vescovo ordinò che in tutte le chiese consacrate alle ore 22 fosse esposto il SS Sacramento sopra l’altar Maggiore e che «i fedeli pregassero per un’ora per gli imminenti bisogni di S.ta Chiesa e di tutto il Popolo et palacare l’ira del Signore Dio». Alle chiese da visitare nella processione del mattino venne aggiunta quella di S. Rocco (pellegrino francese, 1295-1327) protettore dalla peste. La chiesa, o meglio l’oratorio, di S. Rocco era situato dietro l’abside della chiesa di S. Agostino, all’angolo tra le attuali vie Sigismondo e via Isotta (che una volta si chiamava contrada S. Rocco). L’edificio venne demolito dopo il terremoto del 1916.

Le processioni continuarono anche nel mese di luglio, il giorno 6 partì da S. Colomba la Cattedrale. Sempre in questa data il Pedroni riferisce che «per ditta causa (la peste) si sta con universal timore. Il pesce si mangia non senza il medesimo sospetto poiché li corpi che si ritrovano nella spiaggia si dubbita che non siano corpi di appestati et che il pesce se ne ciba». Il giorno sette di luglio il Pedroni fornisce la ricetta di un «Remedio contra la Peste» di cui gli ingredienti principali sono una cipolla da tagliare in due e la Triaca (o Teriaca), una sorta di rimedio universale conosciuto fin dall’antichità. Tra i suoi 50 ingredienti di origine vegetale, animale e minerale c’era anche la carne di vipera, quale simbolo del veleno pestoso che si voleva combattere. Essendo di complessa preparazione la Triaca era molto costosa. Per i poveri c’era la triaca minore, fatta con semi di limone, pane tritato, aceto, ruta e cipolla. Il 9 di luglio toccò ai padri Eremitani di S. Agostino organizzare la processione «andando tutti ordinatamente scalzi, implorando il divino aiuto per li soprastanti flagelli di Dio». La tesi del tutto aberrante che la peste, come altre calamità, accadano per un castigo divino è durata molti secoli. Se Dio è Amore, le cause vanno ricercate sicuramente altrove. Le processioni continuano nel mese di agosto e a quella della mattina si aggiunge un’altra alla sera «pregando il Signore di preseruarci dalle imminenti calamità». Tra le notizie riportate nei Diarij del Pedroni nella prima metà di agosto ci sono quelle che riguardano la città di Parma colpita dalla peste. Il Governatore di Rimini, caro amico del Pedroni, ha un fratello sacerdote, canonico nel Duomo di Parma, che contrae la peste per aver confessato due suore ammalate. Il Governatore si recò a Parma per avere notizie ma venne fermato ai “cancelli”, una sorta di posto di blocco a sette chilometri dalla città, oltre non si poteva andare. Riuscì a parlare con due gentiluomini di Parma, che erano andati li a cercare delle lettere. Il quadro che descrivono è sconvolgente. Nei due giorni precedenti sono spirate 500 persone, la città era rimasta «senza confessori, senza aiuto alcuno, senza cure e vettovaglie, in modo che chi non muore di peste muore di fame!». Nobili e cittadini scappati dalla città hanno nella campagna vita difficile. «I villani per hauer la roba ammazzano i cittadini e Gentiluomini et fanno le più barbare crudeltà a essi signori». La peste da problema sanitario diventa un problema sociale e di ordine pubblico. Mons. Mattei lo sapeva bene infatti si spostava con una squadra di sbirri e il boia. Il «31 Agosto 1630, che fu giorno di sabbato, fu aperta la Porta di S. Andrea di Rimino, la quale fu chiusa per li presenti sospetti di contagio a dì 22 giugno 1630 in giorno di mercore, alla quale porta furono messe le guardie al modo di prima». La chiusura della porta di S. Andrea aveva causato grossi disagi agli abitanti dell’entroterra che per entrare nella città dalle altre due porte rimaste aperte (quella di S. Giuliano, di fronte al Ponte di Tiberio, e quella di S. Bartolomeo) erano costretti a guadare l’Ausa o il Marecchia «tanto con bestie e carri tanto senza». Il 9 di settembre il nostro cronista annota che continuano le processioni per «essere preseruvati dalle peste». Fa un lungo elenco di città “maltrattate” dalla epidemia in Romagna come Lugo, Bagnacavallo e Russi. Il 26 settembre, non bastasse la peste alle porte, c’è una alluvione che inonda il Borgo S. Giuliano. Il Pedroni annota, con la diligenza che lo contraddistingue, che «annegò un grosso porco nella possessione del Zippone» (chissà dov’era). Il 14 di ottobre, festa del Patrono, la processione di S. Gaudenzio fu solenne, in quanto alla presenza di religiosi, ma senza musica e con poco popolo «e non passò l’antichissimo arco d’Ottaviano (di Augusto) per causa de presenti sospetti di contagio».

Con l’autunno le notizie sulla peste nei “Diarij” del Pedroni si fanno rare, il pericolo sembra essere scampato. Comunque ancora il 3 gennaio 1631 il canonico annota che «Li soldati Perugini a cavallo messi a presidio della città di Rimino furono anco in questa sera, che è venere, destinati alla guardia della Marina per guardare con diligenza che non sbarchi in terra genti forestiere sospette di contagio». Il 7 di gennaio 1631 è a Rimini Mons. Mattei, arrivato il giorno prima, «per causa del suo ufficio». Riguardo i forestieri in viaggio ribadisce che essi abbiano con sé la Fede di Sanità per poter entrare in città. «Partì a dì di notte per la volta di Pian di Meleto (alta valle del Foglia) dove si è inteso esserci poco lontano su quel del Gran Ducato di Toscana state serrate certe case, nelle quali vi erano morte persone di mal contagioso di Peste, a far quelle provvisioni che giudicava necessarie».

Il personaggio cruciale nella vicenda della peste in Romagna del 1630 è indubbiamente Gaspare Mattei, un monsignore che «menava sempre seco i sbirri ed il boja con cavezze fatte». Mattei riuscì ad evitare il propagarsi dell’epidemia di peste in Romagna adottando una tattica discutibile, ma efficace, fatta di cordoni sanitari impenetrabili e pene severissime.

In Romagna l’epidemia di peste si esaurì nell’autunno del 1631, ma ancora nel febbraio del 1633 si controllavano i forestieri che giungevano a Rimini chiedendo la “Fede di Sanità” alle porte della città: Mons. Mattei non aveva abbassato la guardia.

Fabrizio Barbaresi
Ariminum
N.1 Gennaio/Febbraio 2018

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