“I zuclét”

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Pubblicato la prima volta il 12 Giugno 2018 @ 00:00

L’arrivo in tavola del cocomero (l’anguria), un frutto che non “sfama”, era un segnale non tanto di un conquistato benessere, ancora lontano ma del passaggio dalla precarietà del lavoro saltuario ad una più probabile stabilità. Non si potevano correre rischi, si acquistava solo con la garanzia della qualità e per questo c’era in uso il tassello d’assaggio. Oggi non serve più, coltivati nelle serre, tutto l’anno, in genere sono tutti e sempre uguali.

Il cocomero veniva gustato come un premio, tenuto in fresco nella pentola, dentro il lavandino dove cadeva un filo d’acqua fatta scorrere dal rubinetto. La fetta si aggrediva direttamente a morsi, veloci all’inizio poi rallentati per far durare di più la delizia. Si mangiava il rosso della polpa fino a scalfire il verde della buccia che sapeva di cetriolo ed oltre il sapore ed un profumo oggi scomparso, quel frutto aveva una caratteristica unica: trasmetteva la freschezza che arrivava al viso come se emanasse un soffio di aria entrata da una finestra aperta. Era l’emblema dell’estate, prima ancora del mare e della spiaggia, almeno per quelli che abitavano in città

Dalla via Cairoli era più semplice mettersi in viaggio, a piedi, verso il fiume, col costume di lana che pizzicava sulla pelle bianca, il fazzoletto annodato sulla testa come facevano i muratori, frutta e pane nella borsa con la bottiglia dell’acqua. Né si andava scalzi, d’estate, come tante volte ci aveva raccontato la mamma ma quegli zoccoletti con tacchetto, tanto agognati, erano di un numero in più perché durassero almeno due anni, il che ci costringeva a camminare strisciandoli mentre la parte sottostante veniva protetta da uno strato di gomma ricavato da un copertone di bicicletta, per evitare che il legno si consumasse troppo in fretta. Certo, quel castrone toglieva molto al tentativo di civetteria ma quella del risparmio era una regola scolpita. Si prendeva quello che c’era ed il primo insegnamento che veniva impartito ai bambini era di “non chiedere, mai”. Del resto per chi si fosse azzardato, la risposta del babbo era sempre la stessa “an vag miga a rubè!” Si accompagnava la mamma a far la spesa, con lo sguardo abbassato per paura che gli occhi posati sui dolciumi riposti nelle ampolle di vetro allineate sul banco, tradissero un colpevole desiderio. E non era solo quello perché, già consci dei sacrifici dei genitori, non volevamo che si sentissero umiliati

Si dice spesso che i bambini imitino gli adulti ed è vero.. ma capita anche il contrario, che fingano di essere ancora più piccoli della loro età e di non capire i “discorsi” dei “più grandi”. Dunque anche quando si giocava coi compagni non ti abbandonava il pensiero che il babbo, marinaio, non aveva trovato l’imbarco, che la mamma non aveva soldi per fare la spesa, così quando ti diceva “oggi vai a mangiare dalla nonna” fingevi di credere che fosse un invito e non una necessità. Poi anche i riminesi più poveri scoprono il turismo come fonte di guadagno, non solo attraverso il lavoro stagionale che, comunque, rimaneva un’attività complementare. Si faceva la stagione per comprare il corredo alla figlia, rinnovare “la mobilia”, far studiare i figli, pagare le rate della prima utilitaria una fiat 650, quella fatta ad uovo, la simca 1000.. Oggi il lavoro stagionale rappresenta per molti la forma esclusiva di occupazione, per giunta in crisi come effetto della crisi generale e di quella del turismo. Un lavoro che, più che stagionale, è diventato settimanale: si lavora il sabato e la domenica quando non piove. Un sistema quello turistico balneare, che a parte le infiltrazioni e fenomeni negativi, ha attratto stranieri dell’est e del sud del mondo mossi dalla speranza che, anche per loro, si realizzasse quel boom che ci aveva portato il televisore, il frigorifero, la lavatrice, il fon, il giradischi.. che aveva fatto sparire gli odori grazie al deodorante, che aveva sostituito la corrosiva saponina con i detersivi in scatola, fino ai collant al posto delle calze di seta belle ma per poche. Solo che non è e non sarà così perché allora si usciva dalla crisi mentre oggi ci siamo rientrati.. in un momento in cui la povertà non è solo nell’economia perché la prima ad essere saccheggiata è stata la speranza.. ma questo è un altro discorso..

Dunque, dopo il lavoro stagionale, emerge anche la vocazione di “affittacamere” che tante volte ci è stata attribuita. Così, soprattutto, nelle “case popolari” dotate di più stanze, le famiglie, nel periodo estivo, si ritirano nei “fondini” e lasciano l’appartamento ai turisti, no, anzi, allora si chiamavano “bagnanti”.. altre famiglie di operai provenienti dalle fabbriche di mattonelle dell’Emilia, dalla Fiat di Torino, dai calzaturifici di Vigevano…che arrivavano al mare a prendere i bagni e le sabbiature per ritemprarsi. Famiglie modeste, soldi contati e suddivisi preventivamente voce per voce: l’alloggio, il vitto preparato nella cucina di casa, un gelato ogni tanto per i bambini, un ghiacciolo diviso in due per i genitori che tanto “ a me non mi va”, per souvenir le conchiglie raccolte a riva, qualche cartolina da inviare, a riprova, ad amici e parenti. Nessuna differenza sociale, dunque, tra ospiti e titolari degli alloggi, l’unica distinzione era nell’accento e nei dialetti. Mi appariva una stranezza che i lombardi anteponessero l’articolo ai nomi maschili: il Carlo, il Mario quando dalle nostre parti era ed è esattamente il contrario: la Teresa, la Lucia mentre il soccia degli emiliani, ignorandone completamente il significato, suonava bene ed entrò subito a far parte della nostra parlata

A San Giuliano Mare frequentavano il tratto di spiaggia libera vicino alla Fonderia Bagnagatti. Nelle giornate di garbino il fumo delle ciminiere e l’odore acre avvolgevano la zona creando un effetto che oggi definiremmo fantozziano. Ai primi cenni di reazione allergiche, il titolare dell’alloggio di affrettava a dire “non è niente, è il cambio d’aria”! e vai col riso in bianco! Credo che data la distanza dal mare, si abbronzassero più durante il tragitto che in spiaggia. Una vera trasferta con materassino, tenuto sulla testa dal ragazzino, esibito come un trofeo, il seggiolino pieghevole per la mamma, l’ombrellone in spalla al babbo, le borse con i ricambi, gli asciugamani, gli stessi che si usavano a casa, per stendersi sulla sabbia, l’aranciata fatta con le bustine, le carte da gioco, le palette, i secchielli di latta. Per l’ora di pranzo si rientrava per poi ripartire nel primo pomeriggio. Un’altra forma di pendolarismo insomma. Ma, in ogni caso, anche questo era un segnale epocale che approdava all’idea delle ferie come vacanza e non solo distacco dal lavoro. Un’immagine che sarebbe presto sfociata nel cosiddetto turismo di massa e che allora contrastava con quello elitario che si consumava presso gli hotels di Marina Centro dove le dame indossavano cappellini e guanti coordinati e mai si sarebbe visto un uomo con la camicia a maniche corte. Menù curati da grandi chef, american bar, camerieri in smoking. Pizza esclusa dalla ristorazione. Mentre i night club, dove si ritrovavano la borghesia e la decaduta nobiltà, avrebbero ispirato la “Dolce Vita” di Fellini dando vita ad un fenomeno di costume che ancora segna il made in italy.

“E la chiamano estate” di Bruno Martino diventa allora la colonna sonora di un periodo che voleva riscattarsi dalla guerra ed accendere le luci sul futuro tutto da inventare.

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