Soldato, aviatore e fiero mazziniano

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Pubblicato la prima volta il 29 Maggio 2020 @ 10:41

Giannetto Vassura: Romagnoli, dinnanzi a questo nome scopritevi il capo: è uno degli eroi più fulgidi della nostra terra! Decio Raggi, Paolucci, Baracca, Lucchi, Basili, Vassura. Cinque Eroi, cinque medaglie d’oro simboli imperituri di una gloria che onorerà nei tempi il valore dei figli di Romagna”.
Con questa esortazione un po’ retorica ma certo profondamente sentita inizia il testo di uno dei fascicoletti della rivista “Romagna Eroica” editi nel 1919 dalla Casa Editrice “La Romagna “, di Forlì: raccolta periodica di biografie, fotografie e ricordi dei nostri conterranei caduti nella Grande Guerra.
Il numero – Anno I, n.8 – è integralmente dedicato alla vita ed alle gesta di Giannetto Vassura, “L’Eroe della Medaglia d’Oro”; Medaglia d’Oro che però, curiosamente e benché meritata, non gli fu poi concessa. Ma andiamo per ordine.
Vassura non era riminese, ma certo appartiene a pieno titolo alle nostre memorie visto che fin dal 1932, per volontà di Italo Balbo allora Capo di Stato Maggiore e sottosegretario ali’ Aeronautica, “in riconoscimento delle virtù militari e dell’opera offerta in guerra” fu a lui intitolato l’Aeroporto Militare di Miramare.
Nel maggio del 1939 il Ministero autorizzò anche la realizzazione di una stele dedicata all’eroico pilota; stele andata distrutta durante il passaggio del fronte e ricollocata nel 1968 ali’ interno dell’aeroporto, nel frattempo divenuto base del del V Stormo caccia, ed attualmente del 7° Reggimento Aviazione dell’Esercito “VEGA”.
Natio di Cotignola, classe 1894, era di piccola statura, tutta salute e tutto nervi. A quattordici anni aveva iniziato una brillante carriera sportiva quale podista, tanto da vincere una serie di gare e persino i campionati Emiliani del 1909.
Il famoso maratoneta campione del mondo, Dorando Pietri, lo incontrò ad Imola e gli fece dono di un paio di scarpette da corsa quale personale augurio di grandi fortune nello sport.
Cresciuto in un ambiente repubblicano – il nonno era un reduce della prima guerra d’indipendenza ed il padre era stato volontario garibaldino nella terza nonché al fianco dei francesi nella guerra franco prussiana – ambiente particolarmente radicato nella “bassa” romagnola, aveva ben presto abbracciato con entusiasmo la fede mazziniana venendo classificato dagli organi di Polizia fra i soggetti da tener sotto attento controllo. Allo scoppio della grande Guerra avrebbe voluto far parte del contingente di volontari garibaldini in partenza per il fronte francese per combattere i tedeschi ma ne fu sconsigliato anche per evitare di perdere il lavoro che svolgeva presso l’Ufficio del Servizio Postelegrafonico di Pontelagoscuro. Si dette allora ad una virulenta attività di propaganda interventista partecipando a sfilate, cortei, manifestazioni e comizi in tutta la Romagna, conclusi più di una volta in modo turbolento. Nel gennaio del 1915, chiamato alle armi per il servizio di leva, chiese di esser assegnato al corpo del Genio telegrafisti vista la sua specializzazione nel lavoro; ma i suoi precedenti politici ed il foglio di informazioni di polizia che lo accompagna va e che lo segnalavano quale pericoloso “rosso repubblicano” sconsigliarono ai responsabili del Presidio Militare l’accoglimento della domanda stante il livello di riservatezza – e la doverosa prudente valutazione sulla sicura affidabilità “istituzionale” degli elementi prescelti – che veniva richiesta agli appartenenti a quel delicato settore del R.E.. Fu quindi destinato al R.C.A. (Regio Corpo Automobilisti ) e nel maggio successivo, iniziate le ostilità, si trovò a far parte della m Armata, sul fronte goriziano. All’inizio della prima offensiva austriaca del maggio-giugno 1916, la c.d. Straße expedition, fu spesso sugli altipiani ove molte volte fu comandato di servizi in zone pericolose e battute. Intemperante per natura, capitò in una occasione che abbandonasse il camion che stava guidando per prendere il fucile e correre in trincea accanto al reparto di soldati della fanteria che vi era stato destinato, pur di combattere di persona l’austriaco. In quella circostanza fu ferito ma venne richiamato dai superiori, punito e comandato di tornare alla guida del suo mezzo e di restarci. La punizione mal sopportata ed i racconti entusiasmanti sulla guerra dal cielo che gli faceva il fratello dirigibilista spinsero Giannetto a far domanda di esser trasferito in altro reparto.
Chiese espressamente di entrare in un reparto di aviazione ed a nulla valse la promessa della promozione a caporale fattagli dal Comandante il reparto Automobilisti perché la stracciasse. Ai primi di aprile del 1917 fu ammesso al Battaglione Aviatori di Torino. Passò poi al campo-scuola di San Giusto (Pisa) ed in brevissimo tempo ottenne i brevetti di primo e secondo grado per pilotare i Farman (allora i più diffusi) battendo ben 80 allievi e superando il precedente record d’altezza raggiunta. Trasferito all’aeroporto di Malpensa (Milano) chiese più volte di essere inserito in una squadriglia di caccia senza peraltro essere accontentato. Tuttavia ebbe in quel periodo modo di ottenere altro brevetto per ì potenti nuovi aerei da bombardamento Caproni (CA 32, CA 33) di produzione integralmente italiana, uscendo dal corso con il grado di Sergente pilota. Nell’estate del 1918 venne finalmente assegnato alla IV Squadriglia operativa di quel tipo di aerei. Nell’ottobre del 1918, nonostante potesse fruire di un periodo di licenza, non volle mancare all’offensiva finale e, lasciata la famiglia all’indomani dell’inizio della battaglia di Vittorio Veneto, raggiunse il proprio gruppo che era da poco stato trasferito nella base del Campo di Marte di Padova. Lo stesso giorno dell’arrivo non avrebbe neppure dovuto riprendere immediato servizio ma insistette vivamente per far parte di un equipaggio in partenza per una missione con il compito di bombardare un deposito di munizioni austriaco alle spalle della linea del fronte. L’equipaggio si era formato per accordi fra quattro ardimentosi, il Tenente Mario Tarli e due mitraglieri, Zamboni e Fantucci, cui si aggiunse quindi spontaneamente lo stesso Vassura. Lasciato il campo di Padova il Caproni n.11503 sul quale erano imbarcati si accodò quindi alla formazione di bombardieri e caccia diretti verso le linee nemiche puntando verso l’obiettivo assegnato. Le avverse condizioni atmosferiche e la minor potenza del loro velivolo appesantito dal notevole carico di bombe fecero sì che il Caproni perdesse ben presto il contatto con gli altri. E qui inizia la cronaca di quell’ultima impresa.
Nei pressi della verticale su Conegliano il loro aereo viene avvistato da un gruppo di caccia austriaci, che decisamente punta sul bombardiere rimasto isolato. Non ci sarebbe storia fra gli agili caccia ed il pesante Caproni, ma l’equipaggio si difende con coraggio e decisione, aprendo il fuoco con le mitragliatrici di bordo e riuscendo a neutralizzare uno dei velivoli nemici, mentre un secondo accusa noie meccaniche che lo costringono a ritirarsi. A tale vista gli altri caccia virano e ripiegano verso le linee austriache. Il pericolo sembra scampato.
Galvanizzati dall’insperato successo i due piloti decidono di proseguire nella missione per raggiungere l’obiettivo prefissato. Scaricate le bombe imbarcate, l’equipaggio giustamente soddisfatto del risultato si dispone al rientro ma l’aereo, indebolito per qualche ragione nello scontro sostenuto con i caccia, non riesce a levarsi oltre la portata dell’ artiglieria antiaerea che comincia a bersagliarlo con colpi sempre più aggiustati.
Malgrado il pericolo evidente il Caproni non cerca di allontanarsi perché i piloti Tarli e Vassura vogliono compiere altri rilievi sulla ritirata austriaca e decidono di trattenersi ancora sulla zona bombardata per accertarsi dei danni arrecati e dei movimenti delle truppe. Questa scelta coraggiosa si rivela fatale. I tiri dell’artiglieria antiaerea intensificano e la rotta del velivolo è costeggiata dalle esplosioni dei proiettili e degli shrapnel che scoppiano sempre più vicini. Secondo la versione poi resa dallo Stato Maggiore, giunti sopra Conegliano un proiettile colpisce e squarcia un’ala del velivolo staccandola quasi completamente. La sorte di quei quattro aviatori è segnata. Il pesante Caproni, incontrollabile, precipita al suolo e si schianta presso la piccola chiesa di Rua di Feletto prendendo immediatamente fuoco. Accorrono alcuni soldati ungheresi che depredano quei poveri corpi e qualche contadino che vorrebbe portare aiuto; ma per i quattro non c’è più nulla da fare. Le loro salme vengono frettolosamente tumulate a Villa Clementina, frazione di Conegliano, liberata dalle troppe italiane di terra appena l’indomani.
Poiché era tornato volontaria mente in linea per partecipare all’az ione il Sergente Vassura fu subito proposto per la Medaglia d’Oro al Valor Militare dal Comandante della squadriglia. Questa la motivazione: “Pilota ardimentoso ed entusiasta partecipava volontariamente ad un bombardamento di opere militari nemiche. Attaccato da più apparecchi da caccia nemici li affrontava per assolvere ad ogni costo il mandato affidatogli. Colpito l’apparecchio da un proiettile che ne staccava un’ala, precipitava al suolo, immolando la giovane esistenza alla Patria nei giorni della sua redenzione. Cielo di Conegliano, 28 ottobre 1918“.
La proposta fu inoltrata nella certezza dell’accoglimento. Scriveva nel frattempo il Generale Bongiovanni, del Comando Superiore d’Aeronautica, alla famiglia dello sventurato giovane: “Egli è caduto da Eroe in vista della Vittoria che portava la Patria nostra al compimento dei più gloriosi destini. Sia ciò di conforto alla famiglia e sia di conforto il saperlo rimpianto da quanti lo conobbero e poterono apprezzarne le belle virtù di soldato e di aviatore”.
La notizia della sua morte gloriosa a così pochi giorni dalla fine di quell’immane conflitto ebbe vasta eco non solo in Romagna ed i più importanti e diffusi giornali nazionali, dal Corriere della Sera alla Nazione, al Resto del Carlino, al Popolo d’Italia, ebbero per lui parole di commiserazione e cordoglio. Naturalmente molto scrissero di lui i giornali regionali (Il Lamone, la Gazzetta Ferrarese, il Pensiero Romagnolo, Il Romagnolo, La libertà) e così riportò la Vedetta di Lugo: “Sul campo della gloria, a poche ore dal giusto auspicato e grande Fato della Patria, cadde da vero Soldato questo fiero Repubblicano che, nelle epiche gesta della milizia del cielo portava con sé, come viatico, i doveri dell’uomo Giuseppe Mazzini … “.
Singolare destino che vide aprirsi la Grande Guerra con la prima Medaglia d’Oro concessa ad un romagnolo (il Tenente Decio Raggi) e la vedeva finire con altra splendente Medaglia d’Oro sempre guadagnata da un figlio di Romagna. Bello quindi sarebbe stato il poter chiudere così questo ricordo di Giannetto Vassura e due note stonate non ne dovessero mitigare il tono. La prima, già accennata in precedenza, riguarda il ben triste episodio di sciacallaggio operato dai soldati ungheresi sui corpi dei Caduti. Quando nel 1919 i fratelli di Giannetto riuscirono ad individuare il luogo esatto della tumulazione dei corpi li si scoprì avvolti in semplici teli militari, depredati di tutto ciò che avevano indosso, senza un nome né una targhetta che ne consentisse l’individuazione. Giannetto fu riconosciuto solo perché gli era rimasta sul capo la calza da donna che per scaramanzia usava portarsi in volo durante le missioni e l’ormai inutilizzabile casco sul quale si poteva ancora leggere il suo motto: “Fortitudo mea in brachio“. E se tale episodio rientra nel quadro delle miserie umane aggravate dalle condizioni di tempo, di luogo e dalle modalità con le quali furono perpetrate, non minor riprovazione deve destare il secondo, meno appariscente ma altrettanto ingiurioso per questo fulgidissimo Eroe. Con Regio Decreto 14 giugno 1923, restando immutata la motivazione, la proposta di concessione della Medaglia d’Oro veniva infatti derubricata in concessione di Medaglia d’Argento dovendosi forse attribuire tal declassamento – come da alcuni commenti pare trapelare – alla formazione politica dell’eroico pilota, sgradita ai vertici dei comandi militari che avrebbero suggerito di non esaltare eccessivamente le pur eroiche gesta di chi non aveva mai mostrato simpatia per la famiglia regnante. Una versione meno maliziosa riporta invece come spiegazione quella secondo la quale non poteva esser decretata una Medaglia d’Oro ad un sergente se non la si era concessa all’altro pilota, che aveva il superiore grado dj tenente. Quale sia stata la ragione, pare comunque meschina.
Carità pelosa delle volpi altolocate” – econdo una singolare espressione ricavata dalle “Memorie” di Giuseppe Garibaldi a proposito del governo piemontese! – Miserie umane aggiungo io, che però non sminuiscono per nulla ai miei occhi – e mi auguro agli occhi di chi ama la Storia – la figura di questo Eroe romagnolo al cui ricordo Rimini è strettamente legata e del quale deve giustamente andare fiera.

Gaetano Rossi
Ariminum
Anno XVII – N. 1 Gennaio/Febbraio 2010

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