“E la chiamano estate…”

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Pubblicato la prima volta il 7 Luglio 2016 @ 00:00

Oggi l’atmosfera tecnologica ed informatica avvolge tutti – anche quelli che sono passati dal lume ad acetilene al videocitofono – e stride con una povertà di ritorno che ci riporta agli anni prima del boom. Già, il boom, una parola scomparsa dal linguaggio corrente, almeno nella sua accezione positiva: il passaggio dal dopo guerra ai nuovi orizzonti mica avvenne di botto! Furono i dettagli, anche piccoli, del cambiamento a materializzare la speranza di un futuro neanche “migliore”, perché chi era cresciuto nella miseria “nera” (si chiamava così) non aveva neppure l’esatta percezione di “meglio“.

Si sperava in una vita diversa… ed era già tanto.

La mia è stata la generazione che ha vissuto la povertà, ma non la miseria. Non si pativa la fame, ma del cibo non si tolleravano scarti e le tante ricette, che poi hanno costruito la nostra tradizione culinaria, nascevano per lo più dall’esigenza di far la “massima riuscita”. Anche per questo le donne dedicavano tante ore alla cucina, programmando ogni giorno per quello successivo, doveva essere chiaro di quanti ingredienti si disponesse e quante fossero le bocche perché forse, in campagna dove la natura era più generosa, si poteva dire “una bocca in più non fa differenza”, ma non in città dove tutto aveva un prezzo e, quindi, si dovevano calcolare “alrazion”: ognuno la sua porzione e niente di più. Per non creare imbarazzi, non si arrivava mai a casa di altri all’ora di pranzo o cena. E’ una regola che personalmente osservo tuttora.

Ricordo che le ciliegie comprate ad etti, venivano distribuite contate una per una. Noi bambine ci divertivamo a mettere quelle doppie attorno ai lobi a mo’ di orecchini, mentre aperte e strofinate sulle labbra ci davano la parvenza del rossetto.

Mi sono già dilungata invece, in altri racconti, sulla sacralità del pane, secondo un principio che ispirava tutta l’alimentazione.

Il ragù di carne aveva una base di soffritto con cipolla, olio e lardo battuto, mentre nella terrina la pasta subiva un primo condimento con una parte di burro e forma così “prendeva” meglio il sugo: il sapore era sublime, ma lo scopo vero era che “issé l’a tein piò sustenza”, perché poi seguiva un pezzo di pane e/o una mela. Sardoncini e saraghina si mangiavano “sal speini” (la lisca), mentre del pollo si sacrificava solo la “stezza” (la sporgenza del codrione).

Non a caso le donne che facevano la stagione nelle pensioni della Riviera, portavano a casa zampine, colli e interiora che poi venivano cucinate come polli interi, arrosto o alla cacciatora. Oggi non le mangerebbero neanche i cani tirati su a crocchelle.

L’arrivo in tavola del cocomero (l’anguria), un frutto che non “sfama”, era un segnale non tanto di un conquistato benessere, ancora lontano, ma del passaggio dalla precarietà del lavoro saltuario ad una più probabile stabilità. Non si potevano correre rischi, si acquistava solo con la garanzia della qualità e per questo c’era in uso il tassello d’assaggio. Oggi non serve più, coltivati nelle serre, tutto l’anno, in genere sono tutti e sempre uguali. Il cocomero veniva gustato come un premio, tenuto in fresco nella pentola, dentro il lavandino dove cadeva un filo d’acqua fatta scorrere dal rubinetto. La fetta si aggrediva direttamente a morsi, veloci all’inizio poi rallentati per far durare di più la delizia. Si mangiava il rosso della polpa fino a scalfire il verde della buccia che sapeva di cetriolo ed oltre il sapore ed un profumo oggi scomparso, quel frutto aveva una caratteristica unica: trasmetteva la freschezza che arrivava al viso come se emanasse un soffio di aria entrata da una finestra aperta. Era l’emblema dell’estate, prima ancora del mare e della spiaggia, almeno per quelli che abitavano in città. Dalla via Cairoli era più semplice mettersi in viaggio, a piedi, verso il fiume, col costume di lana che pizzicava sulla pelle bianca, il fazzoletto annodato sulla testa come facevano i muratori, frutta e pane nella borsa con la bottiglia dell’acqua.

Né si andava scalzi, d’estate, come tante volte ci aveva raccontato la mamma, ma quegli zoccoletti con tacchetto, tanto agognati, erano di un numero in più perché durassero almeno due anni… il che ci costringeva a camminare strisciandoli, mentre la parte sottostante veniva protetta da uno strato di gomma, ricavato da un copertone di bicicletta per evitare che il legno si consumasse troppo in fretta. Certo, quel castrone toglieva molto al tentativo di civetteria, ma quella del risparmio era una regola scolpita. Si prendeva quello che c’era ed il primo insegnamento che veniva impartito ai bambini era di “non chiedere, mai”. Del resto per chi si fosse azzardato, la risposta del babbo era sempre la stessa “an vag mega a rubè!”.

Si accompagnava la mamma a far la spesa, con lo sguardo abbassato per paura che gli occhi posati sui dolciumi riposti nelle ampolle di vetro allineate sul banco, tradissero un colpevole desiderio. E non era solo quello perché, già consci dei sacrifici dei genitori, non volevamo che si sentissero umiliati.

Si dice spesso che i bambini imitino gli adulti, ed è vero, ma capita anche il contrario, che fingano di essere ancora più piccoli della loro età e di non capire i “discorsi” dei “più grandi”. Dunque anche quando si giocava coi compagni non ti abbandonava il pensiero che il babbo, marinaio, non aveva trovato l’imbarco, che la mamma non aveva soldi per fare la spesa, così quando ti diceva “oggi vai a mangiare dalla nonna” fingevi di credere che fosse un invito e non una necessità.

Improvvisamente, i riminesi più poveri scoprono il turismo come fonte di guadagno, non solo attraverso il lavoro stagionale che, comunque, rimaneva un’attività complementare. Si fa la stagione per comprare il corredo alla figlia, rinnovare “la mobilia”, far studiare i figli, pagare le rate della prima utilitaria una fiat 650, quella fatta ad uovo o la Simca 1000. Un sistema, quello turistico-balneare che, a parte le infiltrazioni e fenomeni negativi, ha attratto stranieri dell’est e del sud del mondo mossi dalla speranza che, anche per loro, si realizzasse quel boom che ci aveva portato il televisore, il frigorifero, la lavatrice, l’asciugacapelli, il giradischi, che ha fatto sparire gli odori grazie al deodorante, che ha sostituito la corrosiva saponina con i detersivi in scatola, fino ai collant al posto delle calze di seta… belle, ma per poche. Solo che non è e non sarà sempre così, perché allora si usciva dalla crisi mentre oggi ci siamo rientrati, in un momento in cui la povertà non è solo nell’economia perché la prima ad essere saccheggiata è stata la speranza. Ma questo è un altro discorso.

Dunque, dopo il lavoro stagionale, emerge anche la vocazione di “affittacamere” che tante volte ci è stata attribuita. Così, soprattutto, nelle “case popolari” dotate di più stanze, le famiglie, nel periodo estivo, si ritirano nei “fondini” e lasciano l’appartamento ai turisti – no, anzi, allora si chiamavano “bagnanti” – ovvero ad altre famiglie di operai, provenienti dalle fabbriche di mattonelle dell’Emilia, dalla Fiat di Torino, dai calzaturifici di Vigevano che arrivavano al mare a prendere i bagni e le sabbiature per ritemprarsi. Famiglie modeste, volti con impresso il pallore conservato dalle nebbie, soldi contati e suddivisi preventivamente voce per voce: l’alloggio, il vito preparato nella cucina di casa, un gelato ogni tanto per i bambini, un ghiacciolo diviso in due per i genitori che tanto “a me non mi va”, per souvenir le conchiglie raccolte a riva, qualche cartolina da inviare, a riprova, ad amici e parenti. Nessuna differenza sociale, dunque, tra ospiti e titolari degli alloggi, l’unica distinzione era nell’accento e nei dialetti. Mi appariva una stranezza che i lombardi anteponessero l’articolo ai nomi maschili: il Carlo, il Mario quando dalle nostre parti era ed è esattamente il contrario: la Teresa, la Lucia mentre il “soccia!?” degli emiliani, ignorandone completamente il significato, suonava bene ed entrò subito a far parte della nostra parlata.

A San Giuliano Mare frequentavano il tratto di spiaggia libera vicino alla Fonderia Bagnagatti. Nelle giornate di garbino il fumo delle ciminiere e l’odore acre avvolgevano la zona creando un effetto che oggi definiremmo fantozziano. Ai primi cenni di reazione allergiche, il titolare dell’alloggio si affrettava a dire “non è niente, è il cambio d’aria!” e vai col riso in bianco! Credo che, data la distanza dal mare, si abbronzassero più durante il tragitto che in spiaggia. Una vera trasferta con materassino, tenuto sulla testa dal ragazzino, esibito come un trofeo, il seggiolino pieghevole per la mamma, l’ombrellone in spalla al babbo, le borse con i ricambi, gli asciugamani, gli stessi che si usavano a casa, per stendersi sulla sabbia, l’aranciata fatta con le bustine, le carte da gioco, le palette, i secchielli di latta. Per l’ora di pranzo si rientrava per poi ripartire nel primo pomeriggio: un’altra forma di pendolarismo, insomma.

Ma, in ogni caso, anche questo era un segnale epocale che approdava all’idea delle ferie come vacanza e non solo distacco dal lavoro. Un’immagine che sarebbe presto sfociata nel cosiddetto turismo di massa e che allora contrastava con quello elitario che si consumava presso gli hotels di Marina Centro dove le dame indossavano cappellini e guanti coordinati e mai si sarebbe visto un uomo con la camicia a maniche corte. Menù curati da grandi chef, american bar, camerieri in smoking. Pizza esclusa dalla ristorazione. Mentre i night club, dove si ritrovavano la borghesia e la decaduta nobiltà, avrebbero ispirato la “Dolce Vita” di Fellini dando vita ad un fenomeno di costume che ancora segna il made in italy. “E la chiamano estate”, di Bruno Martino, diventa allora la colonna sonora di un periodo che voleva riscattarsi dalla guerra ed accendere le luci sul futuro tutto da inventare.

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