E’ ancora Natale?

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[da "Rimini e Giulio Cesare", Umberto Bartolani]

Pubblicato la prima volta il 16 Novembre 2018 @ 08:50

[da "Rimini e Giulio Cesare", Umberto Bartolani]
[da “Rimini e Giulio Cesare”, Umberto Bartolani]
Ho avuto modo, infatti, di scrivere del natale degli anni ’50 in altri post e mi fa un certo effetto pensare che abbiamo trascorso un lungo periodo insieme nel quale, tutto sommato, ho aperto tratti della mia vita ad amici e sconosciuti.

A prevenire uno scontato “chi se ne frega”,  preciso di non aver mai pensato che le mie storie avessero chissà quale  appeal cullando invece l’illusione  di riportare alla mente aspetti della vita passata che esorcizzassero la miseria e ci (mi) aiutassero a capire perché e come siamo diventate le persone che siamo.

Storie di povertà e dignità popolana. Alludo all’episodio della mamma che rifiutò il “pacco” dono della Dame di Carità invitandole a portarlo a  “a chi sta pez che ne nun”, baccandosi uno sdegnato “siete troppo orgogliosi”!

Storie di un piacere che si consumava nell’attesa e nell’eccitazione di preparativi che marcavano la festa dove il sacro era  rappresentato da una ritualità che ci faceva sentire fortunati rispetto a chi aveva ancor meno. L’albero “rimediato” nottetempo da un ramo di pino reimpiantato in un barattolo di latta. I cappelletti preparati rigorosamente la vigilia. La zuppa inglese, con i biscotti “Osvego” impregnati di alchermes e rum e che dava a noi bambini il privilegio di leccare il cucchiaio usato per mescolare la crema e la cioccolata.

Qualche  lettore (me lo hanno confidato in diversi) si è pure divertito. Ci credo. La comicità non è  di chi la vive, che in genere manco se n’è accorge, ma di chi sa leggerla.

La banda dei capponi  ovvero di quelli specializzati nel furto del pollame che, in  mancanza di frigorifero, veniva messo sul davanzale delle finestre….. non l’abbiamo già vista in qualche film di Totò?

Sia chiaro, nessuna nostalgia e tantomeno retorica per un periodo in cui ti consolavi solo guardando chi stava peggio e neppure è vero che “almeno c’era la speranza nel futuro”. Ma se non esisteva nemmeno la dimensione del futuro! E’ che il passato rappresentato dalla guerra, dalle sue macerie, non solo fisiche, era talmente brutto che il presente era già futuro.

C’era la presunta consapevolezza di una superiorità gastronomica. Questo sì. Anche con pochi ed essenziali alimenti o ingredienti le nostre mamme, sfruttando ogni foglia, ogni, seppur raro, avanzo, inventavano le ricette che oggi appartengono alla peculiarità della cucina romagnola e riminese.  Eravamo convinti che “nun a magnem mej che né i  sgnur”. E questo ci riscattava da tutto il resto.

E non credo  sia casuale che la mia generazione metta il cibo tra i primi posti della scala acquisti.

Poi è vero, per rimanere in tema, senza pretesa di approfondimenti sociologici, che ci potremmo interrogare sul Natale dei nostri giorni.

Se il modo di festeggiarlo riflette la condizione economica e lo stile di vita… oggi come dovrebbe essere? Così com’è? Con i panettoni esposti negli scaffali già a settembre e dove rimarranno in gran parte invenduti fino alla svendita del “prendi 3 e paghi 2” o alla sostituzione con le colombe pasquali che avverrà  subito dopo l’epifania anche con la Pasqua prevista per fine aprile? Con gli addobbi di plastica  e le palle colorate che cadendo dall’albero rimbalzano ripetendo un rumore sinistro  ed irritante mentre il bello stava proprio lì…. che cadendo si rompevano, per cui si avvolgevano, ovattavano come fossero cristalli preziosi! Fino all’aberrazione di chi l’albero, a gennaio inoltrato, lo  ripone nel garage con le palle appese, pronto per il natale successivo? Con i regali forzati scelti non in base alle possibilità economiche ma in virtù del grado di simpatia del destinatario? Conosco chi li compra ad agosto, “così non ci penso più”. Fino ad arrivare alla  perfidia di chi, incontrando il parente che, tapino, è “rimasto” solo, gira lo sguardo altrove ad evitare il rischio di doverlo invitare per il gran pranzo. E se proprio ti viene a sbattere in faccia, allora si tenta il dribbling “quest’anno andiamo in montagna… tanimodi un è piò com’una volta… i fiol je grand.. …”. Per poi arrivarci davvero al grande passo. Pranzo di Natale al ristorante con la famiglia allargata cui seguono i commenti della sera: “saremo stati bene? Alla fine abbiamo speso meno che a casa… eppoi vuoi mettere la comodità? Dopo una settimana: “però i caplett in sassurmeja gnenca mi nost…. De rest com’ì putria fè! Lor i prepara a ferragost e po’ i mett ti frgor! Dopo  dieci giorni: “ i dis d’andè magnè fòra…ja curaģ da dì <è pasta fatta in casa>… te sentì e vein? Freid! Va là chi s’è fatt furb!

Mentre i più evoluti socialmente si possono permettere la differita: “a Natale non è possibile… magari ci troviamo la settimana prima….”. tanto che il 25 dicembre sta diventando una data indicativa con tra le poche certezze la trasmissione, in TV, del film “La tunica”.

Solo che i film riesumati dagli archivi televisivi, quelle pellicole anni 50, sempre a lieto fine, film d’animazione di antica tradizione disneyana, le comiche di Stanlio ed Ollio e di Charlot.. quei film che ci facevano tanta tenerezza, sono oggi percepiti come la naftalina dei vecchi bauli, messaggi che non arrivano più al mittente.

Eliminate le cartoline ed i bigliettini augurali tanto che i tabaccai espongono di mala voglia vecchi esemplari, rimanenze di magazzino, il marito che manda gli auguri alla moglie su feisbuc, gli amici che risolvono tramite sms o mail.

Gli empori cinesi diventano meta preferita per ogni acquisto che riguardi gli addobbi natalizi, luci, carta da regalo..tent enca chi elt i vend tóta roba cinesa, i cappelletti ordinati al “Pasta fresca”, aboliti “i pensierini” come regali di natale per via della crisi perchè enca si costa pòc, tót insein è cminza ad ès una spesa, la “busta” immancabile coi soldi per i nipoti prediletti perché “isé i tò quel chi vò”.

Insomma il natale c’è ma l’atmosfera no o perlomeno “un’è piò com’una volta”.

Ma resta sempre l’atavico auspicio che “tutto vada bene”, il pranzo di famiglia, gli affetti, la salute, che finisca, se c’è stata, la cappa grigia e s’intraveda lo spiraglio nell’anno che sta per arrivare. E’ un auspicio puramente sentimentale che ci portiamo dietro fin dall’infanzia e che anche i più “razionali” covano dentro  di sé.

1 commento

  1. Ciao Grazia, Io sono del 65 nata da genitori semplici che venivano dalla campagna e quindi cresciuta con un piede nel passato che tu evochi magistralmente e un piede nel boom economico. Da noi le palline di vetro erano cosa vecchia regalata dalla zia ricca che per non buttarle via le passava ai parenti poveri, così come le statuine del presepe in gesso sostituite da quelle di plastica. C’erano ristrettezze economiche Ma le nuove imposizioni consumistiche regalate dalla TV facevano capolino e diventavano esigenze. Quando leggo i tuoi racconti sul web e sui tuoi libri che ho comprato, mi prende una sorta di nostalgia per un tempo che non ho vissuto, che non mi appartiene totalmente, ma sono consapevole che non sarei contenta di trovarmi a viverlo. Però è uno slancio, forse per il mio carattere, di matrice sentimentale, ma mi dà energia per vedere il presente sotto angolazioni che la frenesia odierna boicotta.

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