Bella battaglia combattuta alle porte di Rimini nel 1469

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Pubblicato la prima volta il 9 Giugno 2019 @ 08:28

GLI ANTEFATTI.

Sono ormai trascorsi otto mesi dalla morte di Sigismondo Pandolfo Malatesta (9.10.1468) e il pontefice Paolo II si è letteralmente stancato di aspettare che “Ruberto dè Malatesti”, venendo meno ad ogni promessa fatta, non si sia ancora deciso di restituire Rimini alla Chiesa, contrariamente a quanto aveva fatto quattro anni prima per Cesena in occasione della morte di zio Domenico Novello (20.11.1465).

La notizia che suo babbo – benchè ammalato da tempo – il 9 di ottobre era passato a miglior vita, raggiunse Roberto mentre per conto dello Stato della Chiesa militava nei pressi di Pontecorvo (Fr), tra Lazio e Campania, impegnato a presidiare con una modesta condotta i confini del “Patrimonium Petri”. Arrivò a Rimini giusto in tempo per assistere alla tumulazione del caro estinto, consapevole di essere stato escluso dalla successione dinastica del vicariato paterno che suo babbo aveva voluto riservare alla sua adorata moglie Isotta e al suo giovane figliolo naturale Sallustio (note 1 e 2), rispettivamente matrigna e fratellastro del nostro.

Le ragioni dell’esclusione di Roberto non credo vadano ricercate in particolari dissapori esistenti in famiglia, ma nel fatto che Sigismondo, che come tutti sanno era un acceso caratteriale, oltre a considerare il maggiore dei suoi due figli …………

Nota 1) – Lei matrigna in quanto sia Roberto che sua sorella Contessina erano stati generati da Vannetta dè Toschi, una modesta – ignorata e molto graziosa signora di Fano conosciuta al tempo in cui il loro giovanissimo padre stava aiutando la sua matrigna Antonia dei Varano di Camerino, vedova di Pandolfo III Malatesta deceduto nel 1427. Per motivi squisitamente politici egli aveva preferito non condurla mai all’altare, ma da lei non si era neppure saputo distaccare del tutto, tanto da trattenerla presso la sua corte come damigella insieme alla sorella Pina, con libertà di muoversi dove e quando voleva (infatti quando deciderà di farlo si allontanerà da Sigismondo prima ritornando per un po’ di tempo  Fano dai suoi, poi raggiungendo Roberto nel 65 quando diventerà il signore). La nascita di Contessina, molto più giovane rispetto a Roberto, potrebbe voler dire che Sigismondo, nonostante una moglie ufficiale ed una giovane amante come Isotta, ogni tanto non disdegnava neppure avere rapporti sessuali con Vannetta. Una famiglia allargata, come diremmo oggi.

Nota 2) – Lui fratellastro in quanto Sallustio, minore rispetto a Roberto di qualche anno, era stato generato da Isotta degli Atti al tempo in cui ella non era ancora moglie a Sigismondo, all’epoca sposato con Polissena Sforza, figliastra del conte Francesco Sforza futuro duca di Milano. Soltanto nel 1554, dopo cinque anni di vedovanza, Sigismondo ed Isotta si sposeranno, chiedendo a lei e al suo giovane figliolo Sallustio di seguirli per andare ad abitare in CastelSismondo. All’epoca Sallustio non doveva avere più di una quindicina d’anni, mentre Roberto (secondo alcune fonti battezzato da Pietro Barbo vescovo di Fano il 2 febbraio 1438, il futuro papa nel 1464 col nome di Paolo II; secondo altre sarebbe nato nel 1440, mentre per altre ancora, peraltro le più numerose, tra il 1441 e il 1442), e che quindi al massimo poteva avere 26 anni, rimase ad abitare con Vannetta in un palazzo in via Tempio Malatestiano, dietro la chiesa della Crocina. Di tutta la numerosa prole attribuita a Sigismondo solo Roberto e Sallustio vennero legittimati, e ciò avvenne nel 1450 in Fabriano, ad opera di papa Niccolò V.

figli legittimati già ben sistemato (nota 3), non vedeva per niente di buon occhio il fatto che da qualche tempo a questa parte Roberto fosse diventato culo e camicia col papa, peraltro suo padrino per essere stato da lui battezzato, dal quale egli invece si sarebbe aspettato molto di più rispetto a quanto stesse per lui facendo, anzi arrivando fin troppo spesso a minacciare di volerlo privare del vicariato anche sull’ultima città rimasta alla sua famiglia di quello che fino a qualche anno prima era stato il grande dominio malatestiano (non il grande “stato” perché i Malatesta non sono mai stati proprietari del territorio; solo in quanto vicari dello Stato della Chiesa potevano governarlo, quindi non sempre, perchè spesso il papa li privava) che nel momento di sua massima espansione era arrivato a spaziare tra Cesena ed Ancona.

Il povero Sigismondo, tornato dalla Grecia pieno di acciacchi e stanco di vedere che dopo due anni il papa concedendogli di tanto in tanto e chiaramente al solo scopo di tenerselo buono qualche modesto contentino continuava a negargli la giusta ricompensa per la sua a dir poco eroica partecipazione alla crociata contro il turco in Morea, incominciò a nutrire nei confronti di Paolo II un odio tale che, potendo, sarebbe stato anche capace di ammazzarlo (infatti un goffo tentativo in tal senso su tentato da Sigismondo il quale, avendo fatto progetto di accoltellare il pontefice nel corso di un’udienza privata, in gran segreto si provvide di uno stiletto fatto appositamente intarsiare da un maestro orafo, un pugnale che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto passare alla storia come l’arma usata per assassinare un pontefice. Paolo II invece, subodorando il pericolo, il giorno stabilito per l’udienza si mostrò al Nostro circondato da uno stuolo di cardinali, evitando accuratamente di farsi avvicinare da Sigismondo. Intelligence o spiata ?).

Per la qual ragione in cuor suo iniziò ad aumentare sempre di più le distanze dalla Chiesa ed incominciando a stringere una crescente amicizia con la Serenissima Repubblica di S.Marco, sull’aiuto della quale sperava di poter contare per non essere spodestato del vicariato su Rimini, posto che ai veneziani garbava molto l’idea che tra la loro piccola ma potente Repubblica e lo Stato della Chiesa continuasse a rimanerci uno stato terzo, una sorta di cuscinetto, meglio ancora se i suoi reggitori non fossero stati faziosamente di parte. Da questo punto di vista quindi i Malatesta andavano molto bene, vicari della chiesa ma non fedelissimi del papa, o perlomeno non sempre e comunque, come saranno i fatti a dimostrarlo. Ad avvalorare questa tesi basti considerare che essi, nonostante Sigismondo fosse rientrato dalla Morea da un paio d’anni, intravedendo una situazione assolutamente poco chiara nella successione, avevano continuato a mantenere a loro spese quei 200 fanti che fin dal 1464 erano stati distaccati a Rimini col preciso scopo di presidiare la città durante la prolungata assenza del suo signore. 

Nota 3) – Specialmente dopo la restituzione di Cesena fatta nel 1465 da Roberto allo Stato della Chiesa, che oltre a fruttargli una consistente buonuscita e una ricca rendita annua gli aveva consentito di ottenere in un piatto d’argento le signorìe di Meldola, Sarsina, Dogara, Turcino, Montevecchio, le Caminate, Culianello, Ranchio, Gaibana, Turrita, Perticara, Saligno, Casalbono e Polenta.  

Pensando di semplificare al massimo le cose e dal momento che sperava di potersi riprendere Rimini senza dover ricorrere all’uso della forza, Paolo II pensò bene di raggirare l’ostacolo venendo a patti col principe Roberto, che peraltro era suo figlioccio per averlo tenuto a battesimo nel 1438 quando lui era il vescovo di Fano e Sigismondo ne era il signore.

Analogamente a quanto fatto quattro anni prima per Cesena, Paolo II gli promise segretamente tutto il suo appoggio per farlo diventare co-signore di Rimini insieme alla matrigna Isotta ed al fratellastro Sallustio, accompagnando l’offerta con una ricchissima offerta in danaro. Ad una condizione però: che una volta raggiunto l’obiettivo e aver convinto i suoi che sarebbe stato meglio rinunciare pacificamente al vicariato, egli si sarebbe dovuto far personalmente carico di consegnare Rimini nelle mani di un tesoriere pontificio. Avendo Roberto accettato, il patto fu presto concluso.

Travestito da contadino allo scopo di non farsi riconoscere dal personale che montava la guardia di Castelsismondo, dal momento che Isotta evidentemente temendolo aveva dato ordine di impedirgli l’accesso, il 20 ottobre 1468 riuscì ad introdursi nella fortezza paterna ed ivi, raggiunto in seguito dai suoi armigeri e forte del sostegno del papa che per renderlo più credibile nella sua rivendicazione gli aveva anche rilasciato una patente scritta, qualche mese più tardi, superate le inevitabili difficoltà dovute al superamento delle clausole del testamento paterno che così facendo veniva parzialmente disatteso, riuscì a farsi eleggere co-signore di Rimini. 

Nei cinque o sei mesi trascorsi dalla sua investitura, e dopo aver costretto prima Isotta e poi Sallustio a farsi sempre più da parte rimanendo praticamente a governare da solo, nella primavera del 1469 egli stava dimostrando nei confronti del pontefice esattamente il contrario, e cioè di aver preso la città non per la Chiesa ma per il proprio ed esclusivo tornaconto, accampando ogni giorno nuove scuse per tardarne la restituzione. 

Paolo II rimase allora fortemente indignato e, verso la fine di Maggio, cominciò a rimuginare sul da farsi per spodestare definitivamente i Malatesta dalla signorìa riminese, cercando ancora una volta di trovare una soluzione che non comportasse dei costi troppo alti.

IL PIANO.

Ad un suo lontano parente di nome Zane, che all’epoca amministrava Cesena col titolo di Tesoriere, affidò l’incarico di studiare il miglior piano per ricondurre Rimini in obbedienza allo Stato della Chiesa, chiedendogli di racimolare tra le signorie amiche quanta più gente possibile per sostenere l’ormai inevitabile azione delle truppe pontificie che si sarebbero dovute mobilitare a questo scopo. Neanche a farlo apposta, in quei giorni un nutrito contingente dell’esercito pontificio, del quale il conte Alessandro Sforza signore di Pesaro ne era il condottiero, si trovava dalle parti di Cesena. Come prima ipotesi venne presa in esame la possibilità di poter attaccare Rimini dalla porta di S.Bartolo (una porta molto vicina all’Arco d’Augusto, a cavaliere della Strada Maestra, non sulle mura romane antiche ma su quelle più esterne di epoca federiciana), approfittando del fatto che durante l’ora della Messa il connestabile era solito assentarsi e ad essa rimanevano di guardia due soli famuli, per giunta disarmati. Questa ipotesi però venne immediatamente scartata in quanto su questo lato i riminesi, potendosi trincerare alle spalle dell’Arco d’Augusto, sarebbero stati comunque in grado di difendersi abbastanza bene e resistere ad un eventuale assedio che, secondo le aspettative del papa, avrebbe finito coll’essere troppo lungo e costoso, per cui meglio scegliere un piano che ripagasse Roberto rendendogli inganno con l’inganno.

Come indispensabile premessa per la buona riuscita del suo piano, il Zane cominciò a mettere in giro la voce che da un giorno all’altro il papa avrebbe mosso contro Città di Castello le sue truppe per costringere il suo signore a far rientrare alcuni fuoriusciti. Niente di strano quindi che, per raggiungere Città di Castello provenendo da Cesena, esse avrebbero dovuto necessariamente transitare per Rimini.

I fatti che seguirono sono narrati da Gaspare Tartaglia Broglio in un passo della sua Cronaca Malatestiana che una mano tarda (forse nel XVII secolo) vergò “Bella battaglia fatta al borgo di San Giuliano di Rimino”, da altri definita “L’occupazione delle truppe sforzesche”. Una cronaca bella da leggere ma difficilissima da interpretare nella versione resa dal Broglio, non soltanto per la complessità dell’azione ma anche per la solita prolissità dell’autore; tuttavia sufficientemente chiara incrociando i fatti da lui narrati con quanto tramandato ai posteri da altri cronisti, come Baldo Ascanio dè Branchi e Matteo Bruni detto l’Aretino, piuttosto che dai tanti storici come Angelo Battaglini in Battaglini Memorie, o Luigi Tonini nella sua Storia di Rimini e, perché non dirlo, anche dai contemporanei Alessandro Serpieri, Anna Falcioni e Roberta Iotti salvo altri, i quali comunque, a mio avviso, non sempre hanno dimostrato di avere ben compreso la dinamica e soprattutto la logistica di questa battaglia. Senza far nomi, dirò soltanto che qualcuno di loro ha scritto che sotto la torre del ponte di Tiberio c’era un ponte levatoio, che ad onor del vero sull’accesso orientale del nostro ponte non è mai esistito essendo quella porta effettivamente provvista di un “rastello” ossia robusto cancello a saliscendi che si affacciava sulla lunga e stretta carreggiata sottostante un torrione e quindi facile da difendere. L’unico ponte levatoio attestato dalle scritture medievali in prossimità della parte occidentale di Rimini era situato sul fosso Dosso che costeggiava il muro cittadino in cui lungo la via Emilia originale si apriva la porta di S.Giuliano detta anche di Bologna, provvisto in prossimità del suo accesso occidentale di una casupola per l’alloggiamento dei custodi e anche qui con tanto di rastello e di ricetto, ossia del banco dove i gabellieri erano soliti farsi pagare il dazio sulle merci dirette in città.

Poichè all’epoca dei fatti questa porta civica distrutta dalla fiumana grande occorsa il 25 ottobre 1440 che oltre a portarsi via la gabelletta (che mai più se ritrovò, narrano le cronache) aveva anche causato la caduta di un pezzo di muro che le stava accanto non era stata ancora ricostruita, chiunque da quel varco sarebbe potuto entrare indisturbato, mentre per entrare in città bisognava comunque passare per l’altra porta cittadina altrettanto detta di S.Giuliano sul ponte marmoreo, ben presidiata. Il Dosso era un corso d’acqua relativamente importante (non a caso in epoca medievale lungo il suo corso risulta esservi stato anche un mulino ad acqua) che partendo in alto dal Marecchia volgeva in direzione del mare mantenendosi parallelo all’attuale via Bissolati, costeggiandola sul lato orientale. Durato a cielo aperto fino alla metà del secolo scorso ed ora del tutto inesistente in quanto spezzettato ed immesso in fognatura stradale, nell’XI secolo, ossia quando il muro che costeggiava venne costruito da un certo Martinus Zagonis che non è dato sapere bene chi fosse, sfociava in mare trenta o quaranta metri appena dopo aver superato le mura di via Madonna della Scala. Ad esso ponte evidentemente il Broglio voleva riferirsi quando parlava di ponte levatoio. Qualcun altro ha detto che comunque nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1469 le genti ecclesiastiche, in precedenza respinte da Roberto, penetrarono in città riuscendo ad aprire una breccia nel muro del porto dell’Ausa; anche questo non è affatto vero: la breccia che le genti ecclesiastiche praticarono in quel muro non fu fatta per “entrare in città” ma per “scappare dal borgo della marinareccia”, come dire che tra l’una e l’altra versione c’è una bella differenza, temendo di essere inseguite da Roberto il quale per contro, dichiarandosi saggiamente soddisfatto del più che lusinghiero risultato conseguito quel giorno, rinunciò ad assalirle, anche perché si rendeva conto di non avere abbastanza uomini per fare di più di quanto non fosse già stato fatto.

La breccia praticata nel muro del porto dell’Ausa, come molti appassionati di storia civica sanno, non comunicava affatto con la cittadella riminese, che rimaneva ancora una volta barricata all’interno del cinto federiciano, ma si affacciava sui campi della marina esistenti fuori le mura, praticamente nella zona di via Roma e dell’attuale parcheggio del cinema Settebello. Tutto ciò premesso io ho il piacere e lasciatemi dire l’onore di raccontare questa splendida battaglia nel modo in cui credo abbia avuto effettivo svolgimento. Se poi non fosse vero, deve sempre valere il detto di Aristotele: “disputando e contrastando s’impara la verità delle cose, che prima non si sapeva”.

Il piano messo a punto dal tesoriere Zane con la complicità di alcuni fuoriusciti, tra i quali il conte di Sorrivoli Carlo Roverella, uomo d’armi e di molto animo, messer Raniero dottore e cavaliere, del N.H. Carletto Agolanti e da Don Giuliano Zoppo figlio di tal maestro Antonio, era il seguente: da essi era venuto a sapere che attraverso la breccia non ancora riparata (le cronache successive ci diranno che la sua riparazione non avverrà mai) nella parte terminale della muraglia lungo l’attuale via Madonna della Scala in fregio al fiume, diruta in seguito alla devastante fiumana del 10 settembre 1442 che s’era portata via anche una buona metà del torrione retrostante l’attuale chiesina della Madonna della Scala (una chiesa che all’epoca non esisteva ancora in quanto verrà costruita nel 1611), sarebbe stato facile per le genti ecclesiastiche penetrare nottetempo nell’orto dei Malatesta ed ivi, nascondendosi in mezzo al grano alto, aspettare l’alba in attesa di potersi ricongiungere colle truppe pontificie non appena Alessandro Sforza fosse riuscito a farsi schiavare il cancello della porta di S.Giuliano sul ponte marmoreo con l’inganno di essere diretto per ordine del papa a Città di Castello. Da Don Giuliano Zoppo, padrone di un terreno confinante coll’abitato col borgo, il Zane era stato informato che nel cinto delle mura vecchie (riferendosi a quelle ancor oggi esistenti sia pure in pessimo stato di manutenzione sul lato mare della Casa di Cura Villa Maria, un’antica breccia figurava chiusa con del muro sottile, per cui ad un manipolo di pontifici, una volta facilmente sfondata, sarebbe risultato possibile penetrare nel borgo e dal di dentro schiavare la porta Gramignola, mantenuta chiusa di notte come del resto era normale prassi per tutte le porte cittadine, consentendo alle numerose genti ecclesiastiche di irrompere per le vie del borgo dove erano attese dagli uomini dello Sforza.

La terza fase del piano prevedeva che il giorno precedente all’attacco una dozzina di uomini travestiti da romei si sarebbero presentati alla porta di S.Giuliano 1 con la scusa di voler trascorrere la notte in città. L’indomani mattina il loro compito sarebbe stato quello di cogliere tra due fuochi gli uomini di guardia alla medesima e spianare eventualmente la strada alle truppe sforzesche quando queste, presentandosi con la scusa di dover attraversare Rimini per raggiungere Città di Castello, avessero trovato una qualche difficoltà a farsi schiavare con l’inganno il portone.

Parteggiando apertamente per la Chiesa, e invece ostile più che mai ai Malatesta rei peraltro di averlo esiliato, don Giuliano Zoppo, nel fornire tutte queste informazioni, non se la smetteva mai di raccomandare a tutti che, nel caso fosse stato adottata la seconda fase del piano, nessuno degli assalitori avesse a toccare nulla né torcere un capello alla povera gente del borgo, incolpevole dell’atteggiamento arrogante assunto dal principe Roberto nei confronti della santità del papa. Povero illuso !!!.

Nel territorio comunale di Rimini quindi tra il XII e il XV secolo coesistevano due porte entrambe intitolate ufficialmente a S.Giuliano, una in città, che noi tanto per intenderci d’ora in avanti chiameremo “di Bologna” anche perchè questo era effettivamente il suo terzo o quarto nome (Occidentale o Gallica, dei Santi Pietro e Paolo, di San Piero, di S.Giuliano e di Bologna), e un’altra nel borgo S.Giuliano, che noi chiameremo semplicemente “di San Giuliano“, all’epoca dei fatti sembra non presidiata per via della sua totale distruzione avvenuta 28 anni prima per colpa di una fiumana grande (nota 4).

L’AZIONE.

Nella notte tarda tra l’8 e il 9 giugno 1469 il tesoriere Zane, alla testa di un migliaio di uomini guidati da Antonello da Forlì e da Gian Francesco di Bagno, passando esattamente come da copione per la breccia praticata nel muro nuovo dalla fiumana del 1440 penetrò nel cosiddetto “Orto dei Malatesta”, detto anche “Orto dè Cervi” o “dei Daini”, e come previsto si nascose coi suoi in mezzo al grano alto aspettando l’alba per congiungersi alle truppe pontificie non appena queste fossero riuscite a farsi aprire con l’inganno la porta di Bologna.

Dal canto suo la sera prima Roverella, coi suoi uomini, non aveva trovato nessuna difficoltà ad entrare in città dal varco aperto in corrispondenza della porta di S.Giuliano.

Nota 4) – Tanto più che per penetrare in città egli avrebbe dovuto comunque superare la successiva porta di S.Piero sottostante il torrione che si ergeva in corrispondenza dell’accesso orientale al ponte di Tiberio, all’epoca detta anch’essa porta di S.Giuliano, eretta sul finire del primo Millennio e comunque non oltre la prima metà del secolo XI, e durata in piedi fino al 1883.  Inizialmente la porta era dedicata, seguendo di pari passo la cronistoria del titolo dell’abbazia regolare benedettina, agli Apostoli Pietro e Paolo, benchè comunemente detta “porta di San Piero”, raramente ricordata come porta Gallica 2 (ereditando il titolo dalla Gallica 1 originale di epoca romana leggermente spostata verso il centro cittadino e situata esattamente tra il palazzo Ricciardelli e il Palazzo Soleri, attualmente adibito a sede degli uffici dell’Aiuto Materno e Infantile). Soltanto nel XII secolo venne intitolata a S.Giuliano, e questo avvenne in concomitanza dell’elezione del santo a compatrono di Rimini (1164), e non quindi in diretta relazione con lo sbarco dell’arca contenente le sacre spoglie del giovinetto martire dalmata (957).

Per la precisione: avanti la costruzione delle mura federiciane (prima metà del XIII secolo), volutamente rivolte alla drittura della torre sul ponte primariamente attestata mediante bolla pontificia di Gregorio VII del 1078, l’arco ad essa sottostante non aveva nessuna valenza di porta civica occidentale, trattandosi che sul lato monte questa porta civica dava sul nulla, mentre solo sul lato mare della strada maestra la città figurava essere blindata dentro le cosiddette mura aureliane.

Altrettanto però non riuscì all’indomani mattina ad Alessandro Sforza, dal momento che il principe Roberto, subito avvertito e fiutato il pericolo, non si fece sorprendere. D’altronde una cosa del genere a Rimini era già capitata il 4 dicembre 1468, quindi poco tempo prima, a distanza di soli due mesi dalla morte di Sigismondo, allorchè dalle nostre parti si trovò a passare l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico III d’Osterreich e dagli ambasciatori della Serenissima Repubblica di S.Marco e dal Duca milanese Galeazzo Sforza che lo accompagnavano a Roma per incontrarsi col papa, con un seguito di 500 cavalieri ed altrettanti fanti.

Data la situazione di notevole subbuglio venutasi a creare in città in seguito alla morte di Sigismondo, Isotta e Sallustio (Roberto all’epoca non li aveva ancora affiancati ufficialmente nella reggitorìa riminese), sospettosi di quello schieramento e avendogli negato il passo lungo la strada maestra cittadina (non è comunque ben chiaro se fu negato oppure, sapendo del trambusto, furono loro stessi a non chiederlo), stettero per tutto il tempo del suo passaggio appostati sulle mura rimanendo in stato di massima allerta, impazienti di vederlo passare oltre. Ma più paura ancora ebbero quando, dopo essersi allontanato un pezzo, se lo videro venire all’incontro poichè, malamente informato dalle guide ed avendo evidentemente sbagliato strada, era finito negli acquitrini dei Padulli.

Sicchè alle numerose genti ecclesiastiche non restò altro da fare che congiungersi colle truppe pontificie lungo le strette ed anguste stradine del borgo, tentando nel corso di tutta la giornata di far cadere con la forza la porta di Bologna, la quale resistette molto bene difesa dagli archibugieri appostati sugli spalti della sovrastante torre, complice la ristrettezza della carreggiata stradale del ponte di Tiberio.

Solo all’alba del 10 di giugno ai pontifici riuscì, approfittando del livello del fiume della Marecchia trovato eccezionalmente basso, di guadare il porto e penetrare nel campus della chiesa di S.Nicolò, all’epoca non ancora provvisto di murazzo (il murazzo compreso tra la torre di S.Giorgio e la Casa abitata dal Capitano del Porto verrà realizzato soltanto nel 1486 da Galeotto d’Almerico Malatesta, governatore della città nonché tutore del nipote minorenne Pandolfo IV). Da qui, schiavando dall’interno la porta detta di S.Nicolò che si affacciava verso la marina consentendo anche di raggiungere la sommità della palata del molo di levante del nuovo porto realizzato neppure cinquant’anni prima da zio Carlo (che all’epoca si protendeva fino a raggiungere l’altezza dell’attuale via Spica), raggiunsero e facilmente presero l’esilissima torre posta in cima al muro dell’antico porto detto dell’Ausa (la cosiddetta Torraccia, una torre farea deputata anche per l’avvistamento costiero costruita poco più di un centinaio d’anni prima da Galeotto il Guerriero, altrimenti detto il Vecchio). Tutti sapevano che, pur essendo penetrati nel borgo della marinareccia, non si trovavano ancora dentro la cittadella che rimaneva chiusa all’interno del muro federiciano; tuttavia da quella posizione contavano di poter forzare agevolmente una delle due porte che si affacciavano alla zona conquistata in mattinata: o quella S.Giorgio (che noi moderni siamo soliti chiamare Galliana o Arco di Francesca, o quella dei Cavalieri o ad Militum dal 1576 in poi detta anhe di S.Giorgio, quando la Galliana sottostante la torre di S.Giorgio per unanime decisione del Consiglio Generale cittadino verrà interrata per sottrarre le vie e le case del borgo della marinareccia dalle frequenti inondazioni causate dalle piene del fiume della Marecchia, non secolari ma che si registravano mediamente ogni dieci anni.

L’azione che seguì venne tutta incentrata sulla porta Galliana (quella sottostante il torrione di S.Giorgio realizzato qualche tempo prima di morire da Carlo M.), che venne continuamente attaccata e fatta bersaglio dell’artiglieria nemica nel corso di tutta la mattinata, nonostante il tiro degli archibugieri appostati sugli spalti delle mura e della torre (in massima parte federiciane mentre l’ultimo pezzo lungo 67 metri prima della torre di S.Giorgio malatestiane). Il contrattacco di Roberto, che nel frattempo era riuscito a radunare attorno a sé un discreto numero di cavalieri in rappresentanza del fior fiore della sua rinomata cavalleria, non si fece attendere ed egli, approfittando di un momento di pausa nelle ostilità, nel primo pomeriggio del 10 giugno riuscì efficacemente a contrastare i pontifici ricacciandoli fuori la porta di San Nicolò (Nota 5), costringendoli poi a darsi a precipitosa fuga.

Non riuscendo tuttavia loro di ritornare per la via del fiume nel borgo San Giuliano dal quale alle prime luci del giorno erano venuti, dal momento che il Marecchia in quelle ore pomeridiane si era notevolmente ingrossato vuoi per l’alta marea ma anche per la pioggia che quel giorno era caduta abbondante in alta Valmarecchia, sta di fatto che nel tentativo di………

Nota 5) – Prima di comprendere l’esatta dinamica di questa battaglia mi chiedevo come mai le genti ecclesiastiche, incalzate da Roberto, non potendo tornare nel borgo San Giuliano per la strada donde la mattina presto erano venuti, invece di compiere quel gran giro non avessero puntato immediatamente a sinistra rispetto alla porta Galliana 3 verso la torre dell’Ausa, volgarmente detta la Torraccia, senza dover uscire dalla porta di S.Nicolò. La spiegazione è molto semplice: perché la porta di S.Nicolò all’epoca era “l’unico” passaggio attraverso il quale potevasi sortire dal detto borgo per raggiungere il litorale compreso tra i due porti di Rimini, quello dell’Ausa e quello della Maricula. Tanto perchè, com’ebbe giustamente a scrivere il Broglio tessendo l’elogio funebre di quel principe, elencando le opere da lui intraprese nel corso della sua vita, scrisse che Carlo de Malatesti “murò dentro San Cataldo et S.Nicolò dal Porto…”, come dire che segnatamente a S.Nicolò aveva provveduto -partendo da dietro la “domum magnam muratam….” che taluni documenti di metà Trecento descrivono costruita direttamente sul muro cittadino realizzato da Galeotto tra il 1352 e il 1358 e destinata a lavori ultimati a diventare il convento dei padri Celestini – e proseguendo in senso orario lungo l’attuale corso Giovanni XXIII alla volta del muro federiciano fino a raggiungerlo nei pressi della porta dei Cavalieri o ad Militum o di Marina – ad erigere quel muro che serviva per chiuder dentro il borgo Marina, comprese le case dei borghigiani e le possessioni dei padri Celestini, ossia la chiesa, il convento e l’orto.

di sottrarsi in fretta dal tiro dei bombardieri appostati sugli spalti alcuni dei pontifici, che s’erano gettati nel fiume nel tentativo di guadarlo per raggiungere l’opposta sponda, travolti dalla corrente annegarono, mentre altri, dopo aver assistito alla straziante scena dei compagni morti, decisero di ripiegare verso sud ben sapendo che anche laggiù avrebbero incontrato un altro grosso ostacolo in grado di contrastare la loro fuga, ossia l’alto e spesso muro del porto dell’Ausa.

Nella concitazione del momento non meno di cinquanta di persone persero la vita, alcune miseramente affogate, altre raggiunte dai dardi sparati dagli archibugieri e dai cerbottanieri di Roberto, mentre i feriti a terra erano così tanti da non potersi neppure agevolmente contare. Una volta sortite dalla porta di S.Nicolò, che escludendo la via del fiume di fatto era l’unico varco utile per poter uscire dal borgo della marinareccia, le truppe ecclesiastiche e le genti pontificie vennero praticamente a ritrovarsi allo scoperto in una zona di spiaggia chiusa da tutte le parti: a Nord-Est dal mare, ad Est dal muro dell’antico porto dell’Ausa, a Sud dalle mura federiciane e ad Ovest dal fiume della Marecchia. Nel narrare i fatti il Broglio, facendo ricorso al suo solito artificio letterario, si chiese come mai Roberto, che ormai li aveva stretti alle corde, non li fosse andati ad assalire ulteriormente, per finirli.  

E con il suo solito modo di scrivere si rispose: “perché Roberto non era abbastanza forte per farlo, e che comunque tutto quello che già era stato fatto, l’aver cioè respinto fuori dal borgo di S.Nicolò tutte quelle genti in arme, era abbastanza, acquistando tanto honore che in detto borgo, ogni anno, si dovrà tenere una festa per celebrare il fatto d’armi.”

Ebbene, dico io, facciamola questa benedetta festa, convinto come sono che, cadendo oltretutto in estate, potrebbe costituire una interessantissima attrattiva turistica anche per spiegare a tutti com’era fatta la città nel Quattrocento, così diversa da oggi che nessuno se l’immagina. Nella notte seguente (tra il 10 e l’11 giugno) “ruppero il muro della torre dell’Ausa, la quale torre (al mattino, ndr.) avevano pigliata, passando la fanteria per lo buscio rotto e li cavalli attorno”. Non ci sarebbe bisogno di farlo ma provo a spiegare meglio: per ricongiungersi col resto delle truppe pontificie, che nel frattempo avevano messo il campo nel borgo di San Giuliano, molti fanti, non potendo al pari dei cavalieri raggirare a cavallo la torre in cima al muro del porto dell’Ausa, dove evidentemente l’acqua superava l’altezza di un uomo, decisero di aprire una breccia nel muro della torre dell’Ausa, non “per entrare” ma, come già detto, “per uscire” dalla zona di spiaggia antistante le chiese di San Niccolò e di San Cataldo.

Questa circostanza spiega anche come mai il borgo S.Genesio (l’attuale borgo S.Giovanni) nell’estate 1469 venne completamente dato alle fiamme e distrutto. Non per ordine di Roberto, come sembra essere convinto un bravissimo arheologo contemporaneo di cui preferisco tacere il nome, ma ad opera delle genti ecclesiastiche fuggite poco prima dal porto dell’Ausa irretite per la sconfitta ed intenzionate a ricongiungersi col grosso dell’esercito pontificio accampato nel borgo di S.Giuliano compiendo in senso orario il periplo della città. Del resto Roberto, costretto in quei giorni a rimanere chiuso dentro la città di Rimini che come tutti sappiamo venne quasi subito assediata, nulla o quasi in quel frangente avrebbe potuto fare fuori le mura.

Quando nei giorni successivi a dar manforte ad Alessandro Sforza e ai suoi numerosi alleati che rispondevano agli ordini di Antonello da Forlì e di Giovan Francesco di Bagno intervennero le forze armate inviate da Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino, nonché il grosso dell’esercito pontificio fatto venire da lontano e condotto da Napoleone Orsini postosi alla testa di un nutrito gruppo di uomini messi a disposizione dalle genti ecclesiastiche amiche, dunque non meno di 1.500, forse 2.000 uomini ben armati in tutto, Rimini allora venne stretta d’assedio.

A quel punto il Senato della Serenissima Repubblica di S.Marco, il quale mutando improvvisamente atteggiamento rispetto a un anno prima andava ora apertamente sostenendo la causa della Chiesa (un voltafaccia inaudito spiegabile soltanto con la cosiddetta “ragion di stato”), mandò a Rimini un proprio ambasciatore, un certo Giovanni Diedo, supplicando il principe Roberto di arrendersi;  ma, visto che la cosa non rientrava minimamente nelle sue intenzioni, dopo averlo ammonito non gli restò altro che congedarsi da lui, ordinando a tutte le milizie e alle barche venete presenti nel porto di abbandonare immediatamente Rimini.  Ben cinque bombarde furono allora appostate dai pontifici sui murazzi del borgo S.Giuliano (sempre a voler credere al Broglio, perché non esistono altre fonti in grado di attestare la circostanza che dalla parte del borgo il porto all’epoca fosse provvisto di murazzi, costruiti per la prima volta nel 1886 relativamente alla solo tratta ponte marmoreo-rilevato ferroviario, a meno che per murazzi non si sia voluto intendere le spalle del ponte di Tiberio, il che oltretutto è anche molto probabile analizzando la traiettoria dei tiri dei quali tra poco diremo) contro la porta del ponte di Tiberio e verso la città, la quale nei tre mesi successivi venne bersagliata “da ben 1121 botte grosse senza contare le piccole”, mentre una di queste riuscì a mandare in frantumi la campana della chiesa dei Servi. L’assedio si protrasse fino al 19 agosto quando, caduto nel nulla l’ultimatum intimato agli aggressori dal comandante generale della Lega antipontificia il duca Federico da Montefeltro (Nota 6), lega cui sia Roberto che Sallustio avevano fortunatamente aderito fin dal 4 febbraio dell’anno prima, anche il borgo San Giuliano, dopo aspri giorni di combattimento, venne finalmente liberato, grazie

alle numerose forze messe in campo dal Duca Federico e da altri signori di Romagna aderenti alla lega, e in special modo grazie all’aiuto economico offerto dal re Ferdinando II d’Aragona il quale, impedito dal partecipare personalmente, non aveva mostrato nessuna esitazione ad inviare a Rimini con un bel tesoretto al seguito il suo giovane figliolo Giovanni Duca di Calabria postosi alla testa di un poderoso esercito comandato dal generale spagnolo Don Alonzo, gli invasori furono costretti a darsi a precipitosa fuga. Fu in quel preciso momento che “fo usato grande disonestà che nella partita loro abrusarono dicto borgho e più ferono gittare gran parte delle mura”.

Per le stradine del borgo San Giuliano, testimoniano le cronache, “date alle fiamme e dirute in gran parte le mura, ovunque regnava la desolazione”.

Incalzate dalla Lega, le genti ecclesiastiche alleate con le truppe regolari pontificie furono costrette a ritirarsi dapprima a Virgilliano e poi, ripiegando ulteriormente, trovando scampo nei pressi di San Lorenzo a Monte, dove temporaneamente s’accamparono. Ma anche da questa postazione, battute e messe nuovamente in fuga, furono costrette a ripiegare altrove: Antonello da Forlì, coi suoi, s’andò a rifugiare nel castello di Sant’Arcangiolo, l’unica fortezza a non essere poi contrattaccata da Roberto per esplicito divieto del presidente della Lega il Duca Federico.

Nota 6) – la Lega antipontificia fedele alla maestà di re Ferdinando I d’Aragona detto Ferrantino s’era venuta a costituire allorchè il veneziano Pietro Barbo, eletto papa nel 1464 col nome di Paolo II, alla morte di Alfonso V d’Aragona – I re di Napoli (1458), considerando il regno di Sicilia come proprio feudo, aveva improvvisamente deciso di avocarlo a sè. Anche Sigismondo, che come Jacopo Piccinino era stato condottiero al soldo della potente fazione baronale filo-francese facente capo al duca Giovanni, non subito ma qualche tempo dopo e addirittura ad insaputa del papa vi aveva aderito, mentre Roberto, come s’è detto, entrò a farvi parte insieme a Sallustio nel febbraio del 1468. Nell’Italia centro-settentrionale la Lega poteva contare a Firenze sull’appoggio dei Medici e a Milano su quello degli Sforza. Il conte Alessandro Sforza, fratello minore del signore di Milano Francesco Sforza nonché genero del duca Federico da Montefeltro avendone nell’ambito dei cosiddetti “patti di Pesaro” sposata la figlia Battista, divenuto vicario e signore di Pesaro in quanto questa città era stata spudoratamente venduta dall’imbelle Galeazzo Malatesta detto l’Inetto a Francesco Sforza preferito nella vendita fatta al cugino Sigismondo che per averla nonostante la sua relativa povertà si era dichiarato disposto a pagarla di più pur di non vedere tagliato in due lo stato malatestiano, al di là dal suo credo politico non avrebbe mai potuto sottrarsi dal marciare contro Roberto, perchè in quel periodo egli era legato al papa con una ferma che per questioni d’onore richiedeva di essere rispettata a tutti i costi, anche contro il suo stesso sangue, come appunto quello nella fattispecie costituito dal fratello. Anche questo fatto la dice lunga di cosa significasse nel medioevo essere capitani di ventura, oggi amici e domani forse avversari, e quanto tra uomini d’onore più di ogni altra cosa al mondo valesse la parola data.
 

Contando poi quasi esclusivamente sulle proprie forze, il nostro magnifico principe, dopo aver chiesto ed ottenuto il consenso del comandante generale della Lega, uno ad uno nei giorni successivi riuscì a conquistare Cesena, Monte Scudolo, Gimmano, Montecolombo, Albareto e altri castelli circostanti, come Salodeccio, San Climento, San Gianni in Marignano, Giello, Cerreto, Cieresolo e Mulatiano; poi fu la volta di quelli di Corigliano, Monte Gridolfo e Pian di Meleto.

Secondo un’altra versione dei fatti, dopo il ritiro da S.Giuliano il grosso delle milizie pontificie si sarebbe ritirato in un luogo detto “la Cella dei Ciociari”, e da qui, ripiegando ulteriormente, verso il colle di Cerasolo.

Dal colle di Borgazzano Napoleone Orsini, il Zane, Alessandro Sforza ed altri capitani fra cui Pino Ordelaffi da Forlì ritenevano di essere in vantaggio data la loro posizione sopraelevata.

Il 30 agosto 1469 ha inizio lo scontro. Il primo attacco dei pontifici fu contro il bastione eretto da Federico e quando sembrava che questo stesse per cedere, ecco arrivare Roberto con i suoi cavalieri e tanta irruenza. I capitani dei vari schieramenti come Giavanfrancesco da Pian di Meleto (poi fatto prigioniero) Antonello da Forlì che “ben si fece valere” e Giulio da Camerino “di grande valore” contrastarono alla pari gli assalti di Roberto, di Federico e del duca di Calabria.

Come asserisce lo Zama ne “i Malatesti”, al vespro la battaglia continuava ancora, ma poi i comandanti pontifici, giudicando imprudente lasciarsi cogliere dalla notte, ritirarono le cerbottane (le canne da fuoco) e abbandonarono le posizioni.

Anziché fare altrettanto, Roberto e Alfonso si lanciarono all’attacco costringendo gli avversari a darsi a precipitosa fuga. Si dice che Federico da Montefeltro in quella occasione abbia elogiato Roberto chiamandolo “degno figlio di Sigismondo”. L’inseguimento da Cerasolo si protrasse fino al colle di Vergiano e alla fine il Zane fu costretto a ritirarsi nella sua Cesena. Il cronista scrive di milleseicento cavalli presi da Roberto e di molti nobili fatti prigionieri, con conseguenti grandi riscatti da pagare.

Per tutti questi fatti il minimo che poteva capitare a Roberto era la scomunica del papa con la conseguente interdizione dai pubblici uffici.

Quattro anni dopo invece, esattamente il 25 settembre 1473, con pubbliche manifestazioni di allegrezza e processioni di ringraziamento, Roberto sarà nuovamente in grado di festeggiare la sua riconciliazione con la Chiesa. Per raggiungerla, tuttavia, egli sarà tenuto a restituire al papa tre castelli conquistati nella Marca. Entrato nuovamente nelle grazie di Paolo II, venne reinvestito del vicariato su Rimini a terza generazione, fatto salvo comunque ( e ci mancherebbe altro!) il pagamento alla Camera Apostolica del solito canone di diecimila fiorini annui (un’obbligo esistente sulla carta ma che in pratica veniva pagato raramente, o per lo meno quasi mai per intero, accampando il pretesto o di una alluvione, o di una tremenda carestia piuttosto che per il diffondersi di una qualche malattia endemica che mieteva vittime tra la popolazione). In quella occasione la sua giurisdizione venne addirittura ampliata, comprendendovi anche la città di Fano, che come ognun sa i Malatesta avevano perso durante l’assedio del 1463. Come a dire, ancora una volta, che si dimostra vero il detto di Fedro: “gli umili soffrono quando i potenti si combattono”. 

Fine del racconto liberamente tratto dalla cronaca del Broglio e da altri autori suoi contemporanei.

Finito di scrivere il 10 luglio 2017

                                                                                                           Paolo Semprini

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